In questi giorni ha tenuto banco la vicenda del leone ucciso in Zimbabwe.
Una notizia che, di per sé, dovrebbe occupare le pagine di cronaca locale e che invece, come spesso accade per i fatti che portano con sé un qualche coinvolgimento emotivo, è finita sulle pagine di tutti i quotidiani e le tv mondiali. Da uccisione di un animale, più o meno grave che la si giudichi, è diventata vicenda emblematica della lotta fra il debole e il forte: vuoi che il primo sia simboleggiato da un animale indifeso (almeno di fronte a un fucile da caccia con tanto di ottica) e il secondo da un uomo armato, vuoi che il primo sia un povero Stato dell’Africa meridionale e il secondo i potenti prevaricatori Stati Uniti d’America. Quasi una versione 2.0 del dialogo dei Meli e degli Ateniesi, insomma.
Un velo di retorica ha insomma appannato il succo della vicenda e le due domande che porta con sé. 1) Quanto è grave uccidere un leone?; 2) è lecito chiedere l’estradizione per chi si è macchiato dell’assassinio (termine improprio) di un leone in uno Stato che non rispetta i diritti umani? Eviterò di rispondere alla prima domanda perché l’ha già fatto, alla perfezione, Goodwell Nzou: l’uccisione di un animale (pericoloso) è sicuramente da criticare e forse punire, ma non può essere certo paragonata a quella di un uomo. Ed è proprio questo il punto su cui vorrei concentrarmi: se lo Zimbabwe è infatti così solerte a far rispettare i diritti degli animali (fino a quando non c’è di mezzo il figlio del presidente e i suoi banchetti a base di carne d’elefante) non lo è purtroppo coi diritti umani. Basti pensare che il presidente Robert Mugabe, che da decenni governa il Paese in modo dispotico, ha sempre dimostrato una scarsa inclinazione nei confronti di diritti quali la parità fra i cittadini e la tutela della proprietà privata. D’ispirazione comunista ha sottoposto l’economia del Paese a una stretta pianificazione che è finita col ridurre la ricchezza disponibile e portare l’inflazione a livelli inimmaginabili: nel luglio del 2008 l’inflazione ha raggiunto la percentuale monstre del 231mila per cento e, come conseguenza, dal gennaio all’aprile 2009 si sono stampate banconote da 100mila miliardi (uno seguito da quattordici zeri) di dollari zimbawesi.
E dire che l’impatto drammatico delle politiche di Mugabe sull’economia è perfin poca cosa rispetto a quello imposto sui diritti umani dei quali Amnesty International ha più volte denunciato, nel corso degli anni, continue violazioni. La prima volta nel 2000, la seconda nel 2005 quando ha criticato con queste parole l’operazione Murmabatswina (“spazza via l’immondizia”): “Tra il 18 maggio e il 5 luglio 2005 – scrive Amnesty – vennero infatti distrutte 92.460 abitazioni e 700mila persone furono lasciate senza casa. A seguito degli sgomberi di massa, la maggior parte delle persone fu costretta a cercare rifugio nelle affollate periferie delle città o nelle zone rurali e 222mila minori – fra i 5 e i 18 anni – hanno dovuto interrompere il loro percorso scolastico”. Ancora nel 2013 Amnesty definiva “scadenti” le condizioni dei diritti umani in Zimbabwe.
La più grande forma di discriminazione Mugabe l’ha però attuata nei confronti della popolazione bianca, dando vita a un vero e proprio apartheid al contrario rispetto a quello attuato nel vicino Sudafrica. A seguito di continue politiche discriminatorie dal 1980, anno della sua prima elezione a primo ministro, alla metà degli anni ’90 i due terzi dei “bianchi” furono costretti a fuggire verso altri Paesi. Per il restante terzo la resa dei conti arrivò nel 1997 quando le brigate di Chenjerai Hunzvi, reduce della guerra civile rhodesiana e presidente della Zimbabwe Liberation War Veterans Association, attaccò ed espropriò – con l’appoggio di Mugabe – fattorie e imprese di loro proprietà. Facendo le debite proporzioni fu una vera e propria Notte dei Cristalli in salsa africana.
Di come funzionino oggi le cose in Zimbabwe ho avuto una testimonianza diretta qualche tempo fa quando è venuto ad abitare vicino a me un ragazzo che, nato in Italia, ha però vissuto fin da bambino in Zimbabwe. Eviterò di fare il suo nome e di fornire troppi dettagli su di lui perché i suoi genitori vivono ancora laggiù, temono per la propria vita e in queste cose è sempre meglio essere prudenti. Basti sapere che la sua famiglia possedeva un grande negozio di souvenir per turisti che, prima dell’arrivo di Mugabe, faceva buoni affari. Poi tutto è cambiato: all’inizio la dittatura si faceva sentire con ostacoli insormontabili della burocrazia o coi costanti controlli. Poi, con la nazionalizzazione, il suo negozio divenne di proprietà di un’agenzia governativa che lo riconsegnò ai suoi genitori facendo pagare loro un affitto spropositato, fino a dieci volte più alto (al metro quadro) di quello chiesto al suo concorrente “nero”. Aggiungici il fuggi fuggi dei turisti e capisci come la loro vita sia diventata impossibile. Per sua fortuna il mio amico zimbabwese, coi soldi risparmiati dai genitori (e tenuti prudentemente in Italia), ha potuto studiare in Sudafrica e ora sta cercando fortuna in giro per il mondo, mentre i suoi genitori progettano di raggiungerlo quando avrà trovato una base stabile. Non è facile ma almeno Marco (lo chiameremo così) ha trovato la sua libertà all’estero. Già perché in Zimbabwe si proteggono gli animali, non certo gli uomini.
di Matteo Borghi
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