La trasmissione d’inchiesta “Report”, in onda su RAI 3 e condotta dal giornalista Sigfrido Ranucci, domenica scorsa si è occupata di due società, la “Be proud srl” e la “Obiettivo 5”. Il fatto interessante relativo a queste due aziende è essenzialmente legato ai loro azionisti di maggioranza: il deputato Alessandro Zan, portavoce in politica delle istanze LGBTQ+, e la deputata Michela Di Biase, femminista militante, fondatrice dell’associazione F.A.R.E. (Femminista, Ambientalista, Radicale ed Europeista). Entrambi appartengono al Partito Democratico e – lo ricordiamo – Di Biase è anche moglie dell’esponente del PD Dario Franceschini. Naturalmente non è vietato a parlamentari eletti di essere titolari di aziende o società, dunque perché Report ha voluto mettere il naso?
Stando al servizio andato in onda domenica sera, sussisterebbe un problema di opportunità politica. Sì perché la “Be proud” di Zan, facendo onore al suo ben poco fantasioso nome, gestisce l’intera organizzazione del “Festival LGBT” di Padova: ben tre mesi di manifestazioni, feste e attività, tutte finalizzate a promuovere i cosiddetti diritti arcobaleno. Roba che muove un milione di euro circa, cifra che Zan dichiara regolarmente e che, così dice, viene interamente assorbita dalla manifestazione. Report sospetta che possano anche nascondersi dei profitti, ma l’onorevole nega decisamente. La società della Di Biase, invece, si occupa di certificazioni per la parità di genere, fornendo consulenza alle aziende o alle organizzazioni che la vogliono ottenere, ora che è stata ufficialmente inserita nel codice dei contratti. Anche qui Report sospetta scorrettezze, tipo che le “entrature” della parlamentare, a partire da suo marito, le abbiano consentito di entrare nel relativo mercato in ampio anticipo rispetto ad altri, ma lei ovviamente nega.
Nonostante le risposte di fatto convincenti dei due e nonostante il fatto che essi operino in piena legalità, rimane un aspetto legato all’opportunità politica e, aggiungiamo noi, anche etica, di innestare un business proprio sulle tematiche-guida dell’attività politica dell’uno e dell’altro. Conosciamo perfettamente l’attivismo di Zan nello stesso campo in cui la società di cui è amministratore unico opera, in area padovana; meno nota è forse l’attività di Di Biase nel campo della “parità di genere”, ma è sufficiente raccogliere un po’ di informazioni sulla sua carriera politica per riscontrarla. È impossibile, dopo le rivelazioni di Report, resistere quindi dal chiedersi se e quanto l’attività parlamentare dei due fosse o sia condizionata dalla necessità di fatturare delle rispettive società o, viceversa, se e quanto il consenso elettorale raccolto dai due politici sia ad esse in qualche misura debitore. Insomma, è lecito chiedersi, come per altro fa lo staff di Ranucci, se il tutto non si configuri come un conflitto d’interessi, di cui magari beneficia in qualche modo anche il PD.
Su questi aspetti ognuno è libero di maturare la propria opinione. Di contro, ci sono ragioni fattuali per cui è ragionevole sentire più di una stonatura in tutta la situazione. Entrambi i parlamentari infatti hanno innestato un business laddove il sistema da tempo apre ampie fette di mercato. Per sistema s’intende qui quello neoliberista occidentale affermatosi negli ultimi trent’anni, quello, per intenderci, che al di sopra della regola aurea del capitalismo classico secondo cui «è la domanda che fa l’offerta» ha collocato una nuova regola, ormai diventata pressoché l’unica: «è l’offerta che crea la domanda». Mentre la prima regola suona sensata, nella misura in cui deriva direttamente dai bisogni espressi dai cittadini-consumatori, la seconda è un’anomalia, perché permette a chi, a diverso titolo, gestisce il potere (politico, economico, mediatico) di creare bisogni che non hanno fondamento reale. La creazione di nuovi bisogni, sebbene artificiali, è pane quotidiano nelle economie occidentali. In questo senso gli esempi si sprecano e no, non stiamo parlando dei prodotti trend per cui individui liquefatti della nostra contemporaneità fanno le code di notte di fronte ai negozi, ma di qualcosa di più ampio e pianificato.
In tal senso le tematiche LGBTQ+ e femministe, così come in verità tante altre di cui non parleremo per brevità, rientrano proprio in questo schema. Si impone una tematica ammantandola di emergenzialità, innescando decisioni politiche, sostenute dai debiti battage, che a loro volta aprono le porte a nuovi business. Di fatto, è ben noto, non c’è alcun deficit nell’ambito dei diritti riconosciuti alle persone gay, lesbiche o trans: essendo essi persone, hanno riconosciuti dalla legge tutti i diritti già riservati ad ogni altra persona, né più, né meno. Tuttavia, per innescare il circuito d’affari basta negare che sia così, anzi strillare che la discriminazione sia la regola, se non nelle leggi, nella cultura diffusa. Allora il potere interviene cercando di emendare difetti culturali, anche se quei difetti in realtà non esistono: il risultato sono leggi ad hoc, magari dettate da entità sovranazionali (ONU, UE, eccetera), supportate da mirate campagne mediatiche, con l’effetto collaterale ma decisivo di aprire autostrade a nuove e remunerative attività economiche voraci di risorse sia pubbliche che private.
Quello di un festival LGBTQ+ o di una certificazione di parità è tipicamente un bisogno artificiale, indotto sul piano culturale e in alcuni casi incentivato o imposto a livello legislativo e alla mente torna subito cosa stabiliva il pericoloso Ddl Zan. In altri casi, leggi del genere sono passate: oggi l’azienda che ha una certificazione di parità di genere, ad esempio, ottiene sgravi fiscali, e quella stessa certificazione è ormai obbligatoria per poter partecipare a bandi riccamente finanziati con fondi comunitari, come nel caso del programma “Horizon 2020”. Il neoliberismo occidentale degli ultimi trent’anni ha imposto queste anomalie e insieme ha tolto alla politica ogni scampolo rimasto di potere atto a correggerle. Oggi la politica obbedisce con prontezza e zelo ai diktat di un sistema economico che non governa più.
Decenza vorrebbe che chi partecipa alle decisioni politiche cercasse comunque di limitare i danni o per lo meno rimanesse passivo e distante, senza cavalcare l’onda per proprio profitto. Cosa che, tra l’altro, allunga un’ombra angosciante sulla sincerità delle varie militanze dichiarate. Ed è sotto questo profilo che il servizio di Report sulle aziende di Zan e Di Biase assume particolare senso; se non c’è conflitto d’interessi, c’è inopportunità politica; se non c’è inopportunità politica, ci sono due politici che non fanno il loro mestiere o, peggio, lo fanno molto male.
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