Yemen, un altro anno senza pace

A un anno dalla firma dell’accordo di Stoccolma, la pace nel Paese rimane lontana.

A marzo il conflitto in Yemen, il Paese più povero del Medio oriente, entrerà nel suo sesto anno. A distanza di un anno dall’accordo di Stoccolma, la pace in Yemen è infatti ancora lontana e le speranze continuano a essere deluse.

Eppure le aspettative erano grandi: il 13 dicembre 2018 nella capitale svedese era stato firmato un protocollo che si pensava potesse diventare il punto di partenza per porre fine alla guerra e a quella che le Nazioni Unite hanno definito a più riprese come la più grave crisi umanitaria al mondo.

In particolare, l’accordo di Stoccolma si concentrava sulla città portuale di Hodeidah, principale punto d’ingresso di merci, medicine e aiuti umanitari nel Paese, diventata una delle linee del fronte di una guerra che non ha una via d’uscita militare. Ormai questa affermazione sembra una frase vuota, soprattutto alla luce del conflitto siriano, cominciato nel 2011 e capace di mettere a nudo tutta l’impotenza del diritto internazionale. Eppure, per lo Yemen lo stallo sul terreno è totale da anni, al punto che alcuni Paesi, come il Sudan, hanno deciso di compiere un passo indietro.

Un anno dopo l’accordo di Stoccolma, Hodeidah rimane il luogo più pericoloso per i civili in Yemen. Ad affermarlo sono 15 organizzazioni umanitarie, tra cui Azione Contro la Fame, l’Agence Adventiste d’Aide et Development, Intersos, Oxfam e il Consiglio Norvegese per i Rifugiati. I termini dell’accordo di Stoccolma, insomma, non sono mai stati pienamente attuati.

Se da un lato il numero totale di vittime civili è diminuito rispetto al 2018, in gran parte grazie a una significativa riduzione degli attacchi aerei a Hodeidah, il calo non è comunque sinonimo di pace. Soltanto nell’ultimo anno, infatti, sono stati più di mille i civili uccisi per atti di violenza armata, la metà rispetto al 2018, ma al tempo stesso sono aumentati i feriti, segno che le violenze non accennano a diminuire. Inoltre, sono aumentati anche i casi di civili uccisi o feriti da mine o ordigni inesplosi, saliti da 349 a 504 negli ultimi 12 mesi. Oltre il 40% di tutti gli episodi di violenza armata contro civili è avvenuto nel governatorato di Hodeidah, così come un quarto delle oltre 3.000 vittime civili di tutto lo Yemen è stato registrato nella città portuale.

Nel solo 2019, inoltre, più di 390.000 yemeniti sono stati costretti a fuggire dalle loro case, e anche in questo caso la provincia di Hodeidah, insieme a quelle di Sa’daa e Ta’izz, rappresenta il luogo meno sicuro.

A preoccupare, al di là degli aspetti strategici e diplomatici, è il fatto che sul terreno le organizzazioni umanitarie non siano in grado di muoversi in sicurezza, mentre le infrastrutture del Paese sono state gravemente danneggiate, con numerosi casi di ospedali, scuole e sistemi idrici danneggiati o distrutti da attacchi aerei o bombardamenti.

La guerra contrappone una coalizione di forze regionali, guidate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, e i ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, che avevano avviato la loro azione nella capitale Sana’a nel novembre del 2014. La coalizione a guida saudita, supportata politicamente da diversi Paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti, ha ricevuto armi e munizioni da tutti i principali Paesi europei, primi su tutti Germania e Italia, innescando polemiche politiche sfociate poi nello stop alle autorizzazioni per l’esportazione. Ma ormai, la regione si è riempita di armi, rendendo il conflitto sempre più violento.

La crisi umanitaria derivante dalla guerra in Yemen, che ha causato oltre 100.000 morti, ha creato un’emergenza alimentare che coinvolge oltre 10 milioni di persone, mentre almeno 7 milioni di yemeniti soffrono di malnutrizione.

A partire dalla seconda metà del 2017, e soprattutto durante l’ultimo anno, la guerra è diventata ancora più complessa, per via dell’avanzata del gruppo al-Hirak al-Janubiyy (Movimento del Sud), che, sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, ha preso il controllo della parte meridionale del Paese e in particolare di Aden, aprendo un fronte all’interno della coalizione saudita.

A novembre, questa frattura è stata formalmente ricomposta con la firma dell’accordo di Riyadh, ma questo non conduce automaticamente alla pace, perché il conflitto del 2015 e le sue “ragioni” rimangono immutate.

Secondo Human Rights Watch, inoltre, l’accordo firmato nella capitale saudita non affronta i problemi umanitari, né le gravi violazioni dei diritti umani, approfondendo potenzialmente la sfiducia e minando i futuri sforzi di pace.

Le 15 organizzazioni che hanno redatto l’appello chiedono ora al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di collaborare e accelerare la messa in atto dell’accordo di Stoccolma. «Il recente annuncio dell’apertura dell’aeroporto di Sana’a ai voli medici – si legge nel comunicato – è un segnale positivo e, se attivato, aiuterà migliaia di yemeniti malati ad accedere a cure mediche vitali.

È giunto il momento di rafforzare il processo di pace attraverso l’attuazione degli accordi già firmati e, oltre a ciò, attuando la ripartizione dei profitti del porto di Hodeidah così da pagare i salari ponendo fine allo stallo politico sulla carenza di carburante.

Sebbene si chieda la piena attuazione dell’accordo di Stoccolma, questa non dovrebbe costituire un prerequisito per la pace nello Yemen. Un cessate il fuoco a livello nazionale deve essere messo immediatamente in atto per garantire i colloqui di pace attesi da tanto tempo. Ciò di cui lo Yemen ha più bisogno è la fine della violenza, attraverso una soluzione politica al conflitto che tenga conto delle esigenze delle donne, dei giovani e della società civile nel suo insieme».

di Marco Magnano | Riforma.it


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