Vivere con la pressione di quattromila Tir a pieno carico

Ho compaesani bambini che sono usciti vivi da sotto la slavina di Rigopiano. E compaesani (i genitori di quei bambini) che sono ancora lassù, seppelliti sotto la neve. Lassù, di dove forse ne usciranno vivi.

Parlavo dei luoghi intorno a Farindola quando nel Te Deum dell’ultimo numero del 2016 correvo lungo il sentiero della memoria e mi rivedevo bambino a risalire il fiume Tavo. Su su, fino alle sorgenti. Le sorgenti chiamate (chissà perché) “Vitello d’Oro”. Le sorgenti che ora giacciono sepolte sotto una nevicata che non si è mai vista nemmeno in Alaska. Conosco palmo a palmo quei posti dove è venuta giù la valanga che ha investito il resort di Rigopiano «con la pressione di 4 mila Tir a pieno carico». È così.

Benché milanese di nascita, sono originario di un paese molto vicino a quei Tir. Un paese che (chissà perché) si chiama Loreto Aprutino. A Loreto Aprutino ho un padre malato che giace a letto immobile da molti mesi. E a Loreto Aprutino avevo una madre in seconda. Una donna che mentre accudiva mio padre è stata presa sotto la valanga di un cancro. E ora, lei, Anna, giace lassù, in una tomba sulla collina. «Tutto finisce. E noi, i vivi, siamo quelli che stanno aspettando che tutto finisca». Mannaggia alla compaesana che mi sussurrava queste parole all’orecchio mentre la cazzuola cementava la lastra funeraria. Ho compaesani bambini che sono usciti vivi da sotto la slavina di Rigopiano. E compaesani (i genitori di quei bambini) che sono ancora lassù, seppelliti sotto la neve. Lassù, di dove forse ne usciranno vivi. O forse non ne usciranno mai.

Ecco, travolto e frastornato anch’io dall’affastellarsi di tutta questa infilata di circostanze dell’altro mondo, anche a me capita di avvertire lo sgomento da giudizio universale che preme come 4 mila Tir a pieno carico sulla testa dei miei fratelli abruzzesi. Mi colpisce l’intensità con cui stiamo cercando anche a Rigopiano, con insistenza e dissolvimento del senso del limite insaziabili, un qualche capro espiatorio. Mentre al tempo stesso, con disagio psicologico che ci lega al disagio sociale, con insistenza temiamo di perdere qualcosa nel riconoscere nei fatti lo straordinario, il mistero, l’imponderabile. E dire che non ce n’è uno dei sopravvissuti che non abbia fatto cenno al miracolo, alla fede, a Dio, guardando la tragedia (pur essendo loro le vittime gelate e noialtri gli osservatori al calduccio) dalla parte della gratitudine perpetua di chi si sente salvato per miracolo.

D’altro canto mi colpisce come, abolito il mistero e completamente rimosso il rendimento di grazie a Dio – «al Dio dei campi e delle stirpi» come dice una struggente poesia di Ada Negri –, siamo circondati da uno straordinariamente numeroso e rumoroso nugolo di seminaristi che ci offrono teologia a buon mercato ed ermeneutica dello Stato in tutte le salse.
Con relative preci e/o bestemmie allo Stato assente, allo Stato presente, allo Stato che con tutte le sue autorità, intermediazioni, carte, riti, celebrazioni, interviene (o sarebbe dovuto intervenire) per la ordinaria salvezza dei propri ordinari “cittadini”. Mi colpisce questo appellarsi allo Stato come se fosse Dio; e alle sue autorità, medium, divinità anticorruzione, gente perbene (gli “esperti”, i magistrati), come se fossero Cherubini in cielo. Mi colpisce perché, compenetrandosi perfettamente questo nugolo di divinità chiacchierone con il dissolvimento del senso del limite (che è il problema del soggetto contemporaneo e lega il disagio psicologico al disagio sociale), porta alla luce e fa esplodere il nocciolo della questione: «È come se vivessimo in un palazzo di cemento armato senza finestre», per dirla alla maniera con cui la sintetizzò il Ratzinger papa al parlamento tedesco.

Bisogno di tutto
Così la crisi (politica, psicologica, sociale, economica, insomma la crisi globale della vita globalizzata) è sempre allo stesso punto. Trump o non Trump. Bazooka o non bazooka di liquidità dell’esimio Draghi. Siamo al buio, dentro una casa grande come il mondo ma in cui non ci sono finestre, niente aria, chiusi nel cemento armato di un pensiero senza punti di fuga. Ah, Luisa Muraro, quale valanga schianterà il nostro orgoglio e non ci farà più dissolvere, invecchiare, dormire, sognare, aspettando che tutto finisca? Cosa ci tirerà giù dal piedistallo da poveri cretini borghesi che ci siamo costruiti pensando di portarci i soldi in una bara? È così, Luisa, «non abbiamo bisogno di qualcosa, abbiamo bisogno di tutto».

Luigi Amicone | Tempi.it

Foto Ansa

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