I vertici dedicati al tema delle migrazioni non hanno portato a nuove strategie, ma soltanto a rafforzare quelle attuali. Da Lampedusa lo sguardo di Mediterranean Hope su un’Europa sempre più lontana.
Il G20 di Amburgo e il vertice di Tallinn sembravano arrivare nel momento giusto per affrontare in modo serio il tema della gestione dei migranti che giungono sulle coste del sud Europa attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Eppure, questi incontri si sono conclusi senza proposte e strategie in grado di cambiare l’attuale situazione. L’aumento degli sbarchi, unito a una situazione libica del tutto instabile e fuori da ogni orizzonte di rispetto dei diritti umani, non sono serviti a far sì che la questione venisse presa sul serio dalla politica europea.
«Con la stagione estiva – afferma Alberto Mallardo, analista e mediatore culturale del progetto Mediterranean Hope – ci aspettavamo un aumento del numero di arrivi, perché capita tutti gli anni. Guardando le statistiche ufficiali del ministero degli Interni, il numero di persone censite alla fine di giugno corrisponde a circa 100.000 unità, quindi ci dovrebbe essere un aumento del 15% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. È chiaro che non è questo a mettere in difficoltà le autorità italiane e il sistema dell’accoglienza del nostro Paese, ma a farlo probabilmente è il peso della gestione delle persone che sono comunque arrivate negli anni passati e che ancora oggi si trovano in strutture in cui oramai non dovrebbero essere più».
L’aula vuota del Parlamento europeo martedì 4 luglio, nel giorno della relazione sul semestre di presidenza maltese dell’Unione europea e sulla crisi migratoria, lasciava immaginare un generale disinteresse, ma i risultati degli ultimi sette giorni, così come il dibattito pubblico sul tema, hanno messo a nudo una mancanza di volontà e di solidarietà ancora più marcata del previsto. «Probabilmente – afferma Mallardo – chi non vive la frontiera non si rende conto della crisi umanitaria alla quale ci troviamo di fronte. La Libia è un Paese totalmente fuori controllo, al cui interno operano diverse tribù e diverse organizzazioni criminali che ormai da anni sfruttano, violentano e trattano esseri umani».
Nelle scorse settimane i leader europei, prima di tutto il presidente francese Emmanuel Macron, hanno sottolineato più volte la necessità di trattare in modo differente i profughi rispetto ai cosiddetti migranti economici. Ma questa distinzione ha senso?
«Chi cerca di attraversare il Mediterraneo arriva in Libia per motivi diversi: c’è chi scappa da conflitti, ma c’è anche chi fugge da situazioni di disagio economico e sociale. A nostro avviso, però, una volta che i migranti transitano in Libia, la loro condizione cambia, perché vivere anche un solo mese in un campo di prigionia in Libia lascia dei segni incancellabili, molto spesso fisici, ma anche psicologici».
Come si giudicano le proposte avanzate dalla politica europea per la gestione del fenomeno migratorio?
«Sono tutte proposte che sembrano andare sempre più verso un’ulteriore militarizzazione del Mediterraneo e dei Paesi in cui transitano queste persone. La stessa Italia punta su questa linea, è proprio il nostro Paese a cercare di trovare degli accordi sia con il governo libico di Tripoli sia con le varie tribù che si spartiscono il potere in Libia. Il problema è che in questo modo si bloccano queste persone in situazioni dove i loro diritti non verranno mai tutelati. Finanziare centri di raccolta dei migranti in Libia significa finanziare dei campi in cui la tortura e la detenzione sono la norma».
Possiamo dire che l’Europa si sia tirata indietro rispetto alle proprie responsabilità?
«Certo, e non è la prima volta che capita negli ultimi anni: pensiamo al progetto dei ricollocamenti, che avrebbe dovuto coinvolgere circa 140.000 persone ma che al momento ne ha viste soltanto 18.000 ricollocate dai luoghi di arrivo, quindi Italia e Grecia, verso altri Paesi europei. Il tema delle migrazioni è delicato per l’opinione pubblica, ma serve una presa di coscienza, un atto di solidarietà tra tutti i membri dell’Unione e tra le diverse organizzazioni nell’Unione europea».
Come si può gestire questa rotta per un fenomeno così ampio?
«Noi, come progetto Mediterranean Hope e come Federazione delle chiese evangeliche in Italia crediamo che il solo modo per gestire un fenomeno così complesso e drammatico sia regolarizzare i viaggi e renderli sicuri, evitando quindi le tragedie del mare che si continuano a rincorrere una dopo l’altra. In particolare, va presa con la dovuta attenzione la situazione in Libia. Il coordinatore del progetto Mediterranean Hope, il professor Paolo Naso, proponeva l’idea di affidare la gestione della situazione libica alle Nazioni Unite e quindi a tutti i Paesi firmatari della convenzione di Ginevra, perché quello che sta succedendo oggi in Libia è qualcosa di straordinario, è una catastrofe umanitaria le cui spese vengono pagate dalle persone che la vivono in prima persone e anche dagli Stati che devono accogliere persone traumatizzate per sempre. In questo momento occorrerebbe una presa di coscienza, di responsabilità, da parte non solo dell’Unione europea ma del mondo intero per farsi carico dell’accoglienza e di politiche comuni di integrazione che possano mettere in sicurezza queste persone».
Uno tra i risultati che il governo italiano afferma di aver ottenuto dagli ultimi vertici riguarda un nuovo codice di comportamento per le organizzazioni non governative attive nel Mediterraneo. Questo rischia di bloccarne le attività?
«Dopo aver avuto l’onore di visitare l’imbarcazione Phoenix dell’organizzazione Moas nei giorni scorsi, la risposta è semplice: le Ong continueranno a salvare le vite in mare perché lo fanno già oggi in maniera del tutto legale, rispettando le leggi e in stretta sinergia con le autorità italiane ed europee che già operano in mare. Vista la grande organizzazione che hanno messo in campo, sono convinto che siano in grado di rispettare anche eventuali nuove normative che dovessero essere approvate nei prossimi mesi. Da un lato immagino pure che un’ulteriore regolamentazione dei salvataggi in mare possa essere un beneficio per chi fa il proprio lavoro».
Immagine: Dave Gillett/MOAS.eu 2016, all rights reserved
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