Cosa farete «quando si saprà cosa succede in Siria», ci chiedono i rifugiati mettendoci in imbarazzo. Sappiamo tutto, ma facciamo finta di nulla. Eppure i naufraghi affogati in Sicilia erano siriani.
Osama ha 19 anni e l’aria mite mentre ci accoglie dietro il bancone della profumeria di suo padre, a Kilis, sud della Turchia, confine siriano. Ha la gamba destra lesionata dalla pallottola di un cecchino e non camminerà più normalmente: il padre gli chiede di alzare la maglietta, ci fa vedere la lunga cicatrice che gli attraversa la schiena. In Siria Yahya Khataby era un commerciante che conduceva una vita benestante, i figli andavano a scuola: ora non ha più nulla, solo questo piccolo negozio in una strada trafficata del centro città. La sua è una delle situazioni migliori, fra i profughi: quasi due milioni di rifugiati all’estero, 350.000 nella sola Turchia, ammassati nelle città di confine, fra campi ufficiali e accampamenti improvvisati nei parchi, sotto le moschee, nei garage abbandonati o stretti in più famiglie dentro appartamenti minuscoli, affittati a prezzi esorbitanti.
Yahya racconta dello sfregio della guerra e della violenza del regime di Bashar al-Assad e poi, all’improvviso, chiude la porta del negozio e accende il pc: sullo schermo del computer compare un video che ci mostra, come una rivelazione, le immagini tremende della decapitazione di due uomini, «semplici civili, non soldati», spiega. «Fatelo sapere all’Europa», ci chiede accorato. Non riusciamo a guardarlo negli occhi come, poco prima, non siamo riusciti a vedere il video.
Come far capire a lui e a suo figlio adolescente, e a tutti i profughi che ci hanno accolto nelle loro case improvvisate, che l’Europa sa e che su Youtube si trova documentata ogni forma di violenza, ma non per questo cambia qualcosa?
Eppure la domanda ritorna fra i rifugiati in Turchia: perché l’Occidente non interviene a fermare il massacro che va avanti da due anni e mezzo in Siria? A Kilis, Abir lavora nell’ospedale costruito con i soldi dei sostenitori del Free Syrian Army, la fazione che combatte il regime di Damasco e che ha «liberato» il nord della Siria. La contattiamo grazie a Elsy Wakil, segretaria regionale del World Student Christian Federation Middle East. Ha 35 anni e vive in un appartamento di Kilis con la madre e le due sorelle; i due fratelli e i cognati sono in guerra, il padre, che come molti anziani non aveva voluto lasciare la sua casa, è morto da poco per la ferita di una scheggia che lo ha colpito durante uno dei quotidiani bombardamenti su Aleppo. Instancabile, Abir ci porta di casa in casa a conoscere le famiglie dei rifugiati. È perlopiù un esercito di donne, rimaste sole con i bambini mentre gli uomini sono a combattere o dispersi in Siria, forse morti da tempo. Vedove senza saperlo, aspettano in casa un giorno dopo l’altro, senza lavoro, nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. Vivono di carità, un po’ aiutate e un po’ emarginate dai turchi, sostanzialmente senza prospettive, condannate all’attesa.
Insieme alla famiglia di Abdo, combattente del Free Syrian Army (Fsa) ridotto su una sedia a rotelle a soli 24 anni, vive anche Ala: minuto, silenzioso, a 16 anni sembra ancora un ragazzino. Ad Aleppo ha perso tutti per una bomba caduta all’ora di cena, il momento prediletto dall’esercito di Assad: sono morti il padre, i sette fratelli e la madre ha perso le gambe; lui si è salvato perché in quel momento lavorava come ragazzo di bottega dal barbiere. Oggi il suo unico desiderio è tornare in Siria. Di nascosto, ovviamente, perché chi riesce a scappare all’estero è segnato come traditore e valicare una frontiera fantasma, rischiando di saltare sulle mine, significa entrare in un mondo dove le regole cambiano senza logica e senza preavviso.
La Siria oggi è il luogo dove la vita di uno straniero vale appena qualche migliaia di euro, un paese dove Stati Uniti ed Europa non sanno come muoversi, in particolare in un momento in cui le forze in campo del Free Syrian Army si stanno coagulando intorno alla fazione jihadista di Al Nusra, legata ad Al Qaeda. Ed è soprattutto un paese in cui non c’è un corridoio umanitario e i feriti non vengono curati per mancanza di mezzi, dove la gente muore di fame e di epidemie quando non viene ammazzata dagli scud o dalle pallottole vaganti. Un paese dove la guerra non risparmia nessuno, le forze in campo infieriscono sulle minoranze religiose ed etniche e chi non è riuscito a emigrare in tempo languisce in campi profughi con aiuti scarsi e saltuari. Bab al Salam, a pochi chilometri dal confine turco, è un paese desolato di bambini, donne e vecchi che non hanno niente e non fanno nulla, nascono e si ammalano e muoiono decimati dalle epidemie e dalla malnutrizione sotto le tende ormai stracciate dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Gli occhi fissi al cielo, temendo e aspettando gli elicotteri di Assad che sparano sul campo in cerca di ribelli. È anche un paese in cui, se ci arrivi, ti accolgono con rispetto e speranza e subito ti chiedono che cosa farà l’Europa «quando saprà cosa succede in Siria».
Ma la Siria non esiste, quasi cancellata dal ristretto orizzonte mediatico nostrano e ora ulteriormente messa in ombra dalla tragedia egiziana. Nonostante le centomila vittime dall’inizio del conflitto e i cinquemila morti al mese di una guerra civile che incrudelisce sempre di più e che non trova una via d’uscita, come denuncia l’Alto Commissariato dell’Onu, che indica l’emergenza umanitaria dei profughi siriani come la peggiore dopo il genocidio del Ruanda del 1994. Anche i naufraghi affogati qualche settimana fa sulle coste della Sicilia erano siriani. Sono arrivati fino da noi eppure continuiamo a non vederli. Né morti, né vivi.
Da riforma.it
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