Utero in affitto. E se la gravidanza va male? C’è il bambino di ricambio

Diversamente dalla narrazione dominante e sdolcinata, che lo presenta puntualmente come «un modo per diventare genitori», l’utero in affitto è tutt’altro. Cosa? Essenzialmente, un contratto. Per la precisione, un contratto fra due o più parti, in virtù del quale una donna si impegna – dietro compenso o a titolo gratuito (ma con lauti rimborsi spese) – a farsi fecondare o a farsi impiantare un ovulo fecondato al fine di portare a termine una gravidanza per conto di uno o più committenti, e a consegnar loro il bambino dato alla luce rinunciando a ogni diritto su di esso.

Proprio per questo, e cioè per la sua natura squisitamente contrattuale ed economica, la maternità surrogata si sta sempre più trasformando in un commercio – con tutte le sfaccettature del caso: incluse le più ciniche. Le cronache ci riportano infatti, da anni, di esempi di genitori “intenzionali”, come usa oggi dire con una espressione assai opinabile, che rifiutano il bambino commissionato «perché non assomiglia abbastanza» a loro, o che ritirano solo uno dei due gemelli – guarda caso, quello nato sano e non quello con la sindrome di Down – venuti al mondo. Ci sono poi pure casi di neonati abbandonati, semplicemente, perché non più desiderati.

Orbene, dato che dunque di commercio trattasi e a tutti gli effetti – si parla di un’industria che dovrebbe arrivare a valere 130 miliardi di dollari entro il 2032, secondo alcune stime globali -, le agenzie del settore si stanno sempre più specializzando nell’offerta, per soddisfare al meglio la domanda. In che modo? Per esempio, prevedendo delle clausole surreali, tali per cui oltre a quello concordato è possibile il ritiro di «un bambino di ricambio». Ne hanno dato notizie alcuni giornali italiani, raccontando di società che nei loro contratti offrono servizi del tipo: la «Garanzia di riavvio del programma in caso di decesso del bambino».

Un fatto drammatico come il «decesso del bambino» è disciplinato come si trattasse di una varia ed eventuale, parlando, appunto di «riavvio del programma scelto in caso di decesso del nascituro entro il 7° mese e fino a 20 giorni dopo la settimana 36, senza nessun costo aggiuntivo». Per i clienti che accedono ai servizi “Standard plus” e “Premium” di tale agenzia – che pare davvero il caso di non nominare per non fare ad essa pubblicità – il «riavvio» è gratuito in caso di morte del bimbo nei primi due anni di vita. Cioè, oltre al motto «se non riesce a diventare genitore le restituiremo i soldi», la società inserisce nel contratto la garanzia che, se il bambino avesse un difetto di fabbricazione e ti nascesse morto, tutto si sistema. Il fatto che si stia parlando di esseri umani e non di oggetti, a quanto pare, non rileva minimamente in questa logica fredda.

E paradossalmente, in realtà, per chi opera in questo settore è pure “giusto” così. Le agenzia, infatti, da anni agiscono in una pura ottica commerciale, in una tragica e orrenda coerenza. Chi invece è incoerente, incoerente in modo imperdonabile, sono altri. Chi? Per esempio quei giornalisti e conduttori che, da settimane, si stanno sbracciando per spiegare che la «gestazione per altri» (come la chiamano) in fondo è tanto carina, riportando voci di acquirenti, pardon di genitori tanto felici e di madri surrogate più felici di tutti a vedere il mondo grazie a loro così felice. Peccato che la verità sia un’altra: l’utero in affitto è un disumano e squallido commercio, che si alimenta pertanto delle logiche e delle clausole tipiche della compravendita. Chiaro? Soddisfatti o rimborsati.

https://www.provitaefamiglia.it/blog/utero-in-affitto-e-se-la-gravidanza-va-male-ce-il-bambino-di-ricambio


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