Specifichiamo sin dall’inizio la differenza tra vittimismo e vittima. Per vittima intendiamo una situazione subita senza la propria volontà. Per vittimismo intendiamo, invece, quella condizione di proporsi agli altri come vittima. La vittima è colui o colei che realmente ha subìto un torto, una violenza, un’offesa; il vittimista è una persona, che sebbene non se ne renda conto, si lamenta di un qualcosa subito senza una reale causa o ragione; quasi volutamente. E’ un dato di fatto che gli studi degli psicologi, psicoterapeuti e psichiatri spesso sono affollati da persone che si percepiscono vittime senza una reale causa; sono i vittimisti. Il vittimista si sente incapace e chiede agli altri di fare qualcosa per lui/lei. In genere, dal punto di vista della psicologia clinica e psicoterapeutica, il vittimista propone un gioco relazionale patologico che ha come fine il mantenere modalità relazionali simbiotiche che affondano radici nella disistima di se. Nela incapacità di risolvere i problemi della vita. Sia gli operatori della salute mentale, sia gli operatori pastorali devono stare attenti, in quanto il vittimista ha come obiettivo stimolare la compassione altrui per non attivarsi nelle proprie risorse. Tradendo, al contempo, il messaggio di Gesù sui talenti. E’ il caso della persona che chiede aiuto a risolvere un problema ma qualsiasi supporto fornito si rileva inadeguato. E’ allo psichiatra Eric Berne, ideatore della corrente di psicoterapia, denominata Analisi transazionale, che si deve l’intuito del gioco del vittimista. Nel 1953 Berne individua il concetto di “transazione ulteriore” dove evidenzia il “gioco” patologico relazionale (E. Berne, a che gioco giochiamo, Bompiani, 2006). La transazione, afferma lo psichiatra Berne, è una comunicazione tra due o più persone fatta su di una richiesta iniziale. Ogni risposta alla richiesta iniziale del vittimista viene smontata con una ipotetica affermazione del “Perché non…si ma”. Un esempio banale, ma significativo, può essere il seguente: una persona vuole iniziare la dieta, si reca dal suo nutrizionista di fiducia e per quanto questi gli fornisce gli alimenti per la dieta, la persona non la segue e motiva al nutrizionista le mille giustificazioni: “ma… il dolce mi piace”; “ho mangiato perché mi sentivo giù”; “ma… non posso rinunciare alla pasta asciutta e così via”. E’ probabile che la persona voglia essere solo compatita dal nutrizionista per i suoi sforzi e per i suoi insuccessi. Un atteggiamento che non depone a favore di una maturità psicologia. Un esempio tipico ci viene offerto dal paralitico di Betzaetà, si legge: “Vi fu poi una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto.] Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina». E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare (Gv 5, 1-9).
Si noti come al contempo Gesù non si lascia ammaliare dal vittimismo del paralitico, che in fondo, lui stesso afferma di sentirsi inferiore; vittima della sua stessa inferiorità. Ma ogni uomo è capace di rigenerarsi di riprendersi la vita, di agire con responsabilità e maturità se ha fede: «Gesù, voltatosi, la vide e disse: Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita» (Mt 9,22).
Ritornando al paralitico di Betzaetà è come se dicesse a Gesù, Signore aiutami tu a mettermi nella piscina. Ma Gesù che ama, non può cadere nel “gioco” del sostituirsi al meccanismo patologico di vittimismo. Se lo avesse fatto non lo avrebbe amato e non avrebbe desiderato la sua crescita e salvezza. Perché la persona vittimista, piuttosto che voler superare la sofferenza tende a crogiolarsi in essa, a trarne un qualche assurdo vantaggio difensivo/aggressivo.
Il cristiano autentico dei tempi di oggi deve saper riconoscere l’aspetto del vittimismo patologico da quello di una reale condizione di svantaggio per aiutare in carità e amore.
Riassumendo, alcuni punti, notiamo che alcune caratteristiche comuni di base del vittimismo, per riconoscerlo sono le seguenti: 1) negazione della responsabilità personale; 2) accuse, diffidenza, svalutazione e invidia verso gli altri; 3) focalizzazione in modo rigido sul proprio stare male 4) Dinamiche evasive di manipolazione e sabotaggio ad ogni supporto fornito.
Pasquale Riccardi
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