Inclusione, accoglienza, diritti civili e libertà di espressione: le sfide della Spagna viste dalla Iglesia Evangélica Española.
A una settimana dal referendum per l’indipendenza della Catalogna, la Spagna continua a essere divisa. All’interno della stessa Catalogna si ritiene che più della metà della popolazione sia contraria alla scissione, e proprio questa componente ha fatto sentire la propria voce manifestando a Barcellona e in altre città per richiamare all’unità nazionale e al «buon senso», appoggiata dai tre partiti unionisti: popolari, socialisti e Ciudadanos. Anche a Madrid i cittadini hanno sfilato appellandosi al dialogo e alla negoziazione, mentre il premier iberico non esclude «soluzioni drastiche».
Della crisi spagnola, ma anche dell’accoglienza dei migranti e del ruolo delle chiese abbiamo parlato con Alfredo Abad, pastore della Iglesia Evangélica Española e presidente della Cepple, la Conferenza delle Chiese protestanti dei Paesi latini d’Europa, a margine del Convegno della Federazione delle chiese evangeliche in Italia Vivere e testimoniare la frontiera (Palermo, 30 settembre-2 ottobre).
Cominciamo con un passo indietro: all’inizio del 2017, a Barcellona si tennero le marce per l’inclusione e l’accoglienza (ne abbiamo parlato qui), che resero evidente la volontà popolare di aprire le proprie frontiere e le proprie case ai migranti. Che cosa rimane di quella esperienza, nella società e nella politica?
«Le marce di Barcellona sono proseguite a Madrid e anche in altre province, promosse soprattutto dal movimento Refugees welcome con un’idea più orientata all’accoglienza dei rifugiati. Questo movimento ha avuto un ruolo anche nella partecipazione al processo europeo di ricollocamenti, tuttavia la Spagna non ha messo in piedi una grande accoglienza. Queste azioni non sono riuscite a mobilitare il governo, che non ha nemmeno condiviso con le amministrazioni regionali e locali la possibilità di accogliere più persone».
Per una chiesa come la Iglesia Evangélica Española, vedere una simile volontà popolare è sicuramente positivo e motivante. Vi sentite meno soli?
«È molto positivo, sì. C’è una nuova coscienza della differenza tra rifugiati e immigrati, e vediamo che in effetti c’è questa ricerca, questa volontà. Ci preoccupa però il fatto che non ci sia una risposta da parte del governo, che continua ad avere un ritmo di accoglienza dei rifugiati molto lento. C’è stata qualche piccola variazione rispetto alle cifre degli anni passati, ma continua a essere molto lontano dall’impegno preso. Questi movimenti popolari servono come stimolo, perché si sta formando una coscienza nella popolazione. Credo rappresenti un cambiamento importante che ci sorregge nel lavoro che facciamo».
Quando parliamo di un ritmo lento, di quali numeri parliamo?
«La Spagna aveva preso l’impegno di accogliere 17.000 persone nel programma di ricollocamento dei rifugiati, ma ha raggiunto soltanto la quota di 2.000 persone, al di sotto della percentuale media dell’Unione europea, e il governo continua a rallentare molto questo processo».
Si può vedere una responsabilità del governo centrale anche nella gestione del referendum catalano di domenica 1 ottobre?
«Per noi come chiesa la questione intollerabile è l’uso della violenza. Tanto gli indipendentisti più radicali, quanto il governo spagnolo, hanno agito portando la situazione in un vicolo cieco. Questo è inaccettabile, perché non si è cercato il consenso tra le parti. Per me questo significa soprattutto che la maggior responsabilità è del governo spagnolo, che ha generato la violenza: la manifestazione popolare e la votazione è stata pacifica, il governo va ritenuto responsabile perché ha marcato il processo con un tono che non si era mai visto nei processi di indipendenza europei, e questo ha rafforzato le posizioni più radicali. Questo è pericoloso e rende ancora più difficile arrivare a forme di consenso.
Rispetto alle conseguenze europee credo che la ricerca da parte della Catalunya di una miglior posizione negoziale con il governo nazionale sia stata positiva, perché si è dimostrata una volontà pacifica e una volontà popolare che si è imposta nel processo. Hanno conquistato argomentazioni, hanno avuto ragione e ora sono in una posizione di forza per negoziare».
Molte chiese cattoliche hanno aperto le proprie porte per permettere alle persone di votare, perché molti luoghi civili erano occupati. Che cosa ne pensa?
«Storicamente, tanto in Catalunya come nel País Vasco, la chiesa cattolica ha giocato un ruolo importante e in particolare adesso in Catalunya si è espressa a favore del diritto di voto.
Anche la nostra chiesa lo ha fatto nel Sinodo del 2015, quando si schierò affermando che noi difendiamo la capacità dei popoli di determinare il proprio futuro, e questa è la nostra posizione più significativa. Abbiamo anche criticato con un comunicato della chiesa la mancanza di dialogo. Molte comunità e molti sacerdoti cattolici hanno firmato un documento con cui oltre 400 sacerdoti si sono espressi a favore dell’esercizio democratico del voto. Siamo convinti che normalizzare questo esercizio democratico sia la cosa più logica».
Il Sinodo della Iglesia Evangélica Española si terrà nei prossimi giorni, dal 12 al 15 ottobre. Quali saranno i temi principali?
«Il Sinodo si terrà proprio a Barcellona e uno dei temi principali sarà l’accoglienza dei rifugiati, perché siamo entrati quest’anno nel programma di accoglienza e abbiamo un impegno importante da parte del Sinodo. Poi certo, la questione della libertà a proposito del referendum catalano avrà spazio e speriamo di arrivare a una dichiarazione a favore di questo esercizio di libertà. Oltre a questo, ci sarà un dibattito molto importante sulla questione dell’omosessualità rispetto alle chiese pentecostali e carismatiche che ci accusano su questo tema. Continueremo ad affermare la posizione della nostra chiesa a favore dell’apertura e dell’accoglienza di tutti. Quello che stiamo difendendo rientra nel nostro sistema di valori, secondo cui si tratta di un esercizio di libertà, che sia nell’orientamento sessuale o nei valori democratici, così come per il movimento delle persone. Ci teniamo a continuare a perseguire questa coerenza».
Non crede che, mantenendo queste posizioni sui diritti individuali e civili, ci sia il rischio di peggiorare i rapporti con i migranti, in particolare quelli africani, che hanno normalmente posizioni più vicine a quelle dei pentecostali?
«Stiamo vivendo una situazione curiosa: molte chiese pentecostali e battiste sono cresciute di un 50%, ma hanno visto compromesse le proprie posizioni, per così dire sono diventate più conservatrici e meno aperte a posizioni ecumeniche, soprattutto per una dinamica legata al modo di celebrare il culto in una forma più viva per loro, ma che non rispondeva alle tradizioni, bensì a un aspetto più emozionale.
Noi abbiamo accolto una quantità inferiore di persone, però molte delle nostre chiese hanno affrontato un percorso di confronto con le persone provenienti tanto dall’Africa quanto dall’America latina, con cui abbiamo continuato a camminare unite.
Loro continuano ad avere problemi nello spiegare certe posizioni nei propri Paesi, non solo rispetto alle questioni di etica personale, ma anche rispetto ad altri aspetti dello stile di vita. Abbiamo l’esempio di un cittadino del Camerun, che quand’è tornato al proprio Paese per predicare e ha predicato come lo faceva nella nostra chiesa è stato rimproverato perché difendeva la libertà delle donne. Gli hanno chiesto che cosa gli fosse successo in Europa».
Immagine: via Flickr
di Marco Magnano e Sara Tourn | Riforma.it
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