Gesù completa il suo bel trittico della libera pratica della pietà cristiana con l’accennare all’azione“ascetica” del digiuno. Se l’esercizio dell’elemosina, che significa venire incontro ai bisognosi, e quello della preghiera sono azioni indissolubilmente legate alla vita del cristiano, quello della pratica del digiuno è un’azione cristiana discretamente bistrattata. Molti cristiani enfatizzano l’importanza della preghiera quotidiana e quella comunitaria, e marcano l’impegno ineluttabile del sacrificio del dono, ma è quasi ignorato l’impegno del digiuno. Infatti, il Cristianesimo evangelico, la cui caratteristica poggia sulla religiosità interiore più che enfatizzare una pratica esteriore come quella del digiuno, anche se questa argomentazione non regge se si considera che anche la pietà religiosa dell’elemosina e della preghiera possono essere vissuti con una avvilente ricerca dell’autocompiacimento. La pratica del digiuno era un elemento “liturgico” del pio giudeo, previsto dalla legge mosaica solo per il giorno dell’espiazione (jom kippùr, Lev. 16:29-31).
Tuttavia, i pii israeliti, contemporanei di Gesù, praticavano il digiuno due volte la settimana (lunedì e giovedì). Gesù sembra che non neghi per niente la validità della pratica del digiuno, ma esige dai suoi di evitare di praticarlo con la stessa motivazione spirituale dei Farisei, ossia quello di ostentare la propria religiosità per essere approvato dal popolo. Se Gesù non si oppone alla pratica del digiuno, anche se in qualche testo sembra che Gesù bistratti tal pratica, come quello di Matteo 9:14 sgg. che recita così: “Perché noi (i discepoli di Giovanni battista) e i Farisei digiuniamo e i tuoi discepoli non digiunano? Gesù disse loro: «Possono gli amici dello sposo far cordoglio finché lo sposo è con loro? Ma verranno i giorni che lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno … »”, significa che in qualche modo tale pratica è eseguibile dai suoi discepoli: Gesù stesso la praticò nel deserto prima della sua missione pubblica e negli Atti e nelle lettere neotestamentarie vi sono diversi riferimenti al digiuno apostolico. Questo significa che la pratica del digiuno non può essere liquidata come pratica veterotestamentaria abrogata dal Nuovo Testamento o come pratica cattolica rigettata dagli Evangelici.
Se Gesù non ha rigettato tale pratica, ma nemmeno l’ha incoraggiata, egli l’ha considerata come parte della pietà religiosa giudaica, biblicamente legittimata, allora sorge spontanea la domanda: cosa significa digiunare secondo la pietà giudaica e cristiana?
Ognuno di noi ha un’esperienza del digiuno, anche se essa non è stata motivata da specifiche esigenze religiose ma esatta da un rigoroso programma d’intervento medico (per diagnosticare una malattia o per un semplice intervento di purificazione dell’organismo) o anche da specifiche proteste sociali e politiche. Il digiuno in senso stretto è un’astensione dal cibo. Esso può essere totale, protraendosi anche per diversi giorni o parziale, interessando solo l’astensione di un pasto giornaliero.
Tralasciando le motivazioni mediche e quelle politico-sociali, anch’esse altrettante valide, noi vogliamo concentrarci sul significato religioso- spirituale che sottende la pratica cristiana del digiuno. Essa secondo la Scrittura impegna liberamente il credente nel duro lavoro dello spazzare via l’ingannevole amor proprio e cercare umilmente l’inossidabile e imperituro amore divino: l’esercizio “ascetico” del digiuno serve solo e soltanto come strumento esteriore teso a rinnegare se stesso e ad autodisciplinarsi. Il digiuno è una sorta di umiliazione di se stessi davanti a Dio (cfr. Salmo 35:13). Esso non è una pratica puramente esteriore, ma è legata alla purezza del cuore e della mente e alla conservazione dei buoni propositi che sono le vere motivazioni per una corretta pratica formale del digiuno (cfr. Is. 58:3-11). La pratica del digiuno funge anche come penitenza per il peccato commesso. Abbiamo un chiaro, evidente esempio in Nehemia, dove il popolo si riunì immerso nel dolore, indossando il sacco dell’umiliazione e cospargendosi di cenere per il loro peccato e la loro colpevolezza, con l’intento di digiunare (Nehemia 9:1-2). Lo stesso atteggiamento ebbero i Niniviti in seguito alla predicazione di Giona (Giona3:5). Daniele cercò Dio pregando e digiunando, cospargendosi di cenere e indossando il sacco dell’umiliazione, intercedendo per i suoi peccati e quelli del suo popolo (Dan. 9:2sgg.). Paolo di Tarso dopo la conversione, non mangiò né bevve per tre giorni per il dolore che attanagliava il suo cuore, riconoscendo la sua colpevolezza nell’avere perseguitato la Chiesa (Atti 9:9).
Un altro aspetto del digiuno è l’umiliazione davanti a Dio testimoniando la propria dipendenza da lui per la sua misericordia veniente. E’ da dire che secondo le testimonianze bibliche il digiuno è intimamente connesso con la preghiera. Anzi, essa sembra essere rafforzata dalla pratica del digiuno.
Ricordiamo Mosè che digiunò sul monte Sinai subito dopo che il patto fu rinnovato (Es.24:18). Oppure Il Re Giosafat che di fronte all’avanzata dei Moabiti e gli Ammoniti proclamò un giorno di digiuno per tutto il popolo di Giuda (II Cron. 20:1). Esdra proclamò un digiuno prima di guidare gli esiliati a ritornare a Gerusalemme (Esdra 8:23). Gesù stesso digiunò prima del suo pubblico ministerio (Mt 4:1) e la prima chiesa seguì il suo primo esempio come nel caso di Paolo e Barnaba che erano stati messi da parte per una rivoluzionaria attività missionaria e la fondazione di nuove chiese (Atti 13:1-3).
Una seconda domanda sorge anch’essa spontanea: il digiuno è una pratica che vincola i cristiani dell’ultima ora? È una norma che deve essere rigorosamente applicata nella chiesa odierna?
Credo che l’insegnamento di Gesù scoraggi senz’altro tale pratica se essa viene imposta come pratica legalistica, puramente esteriore, tenuta viva dalle chiese come precetto che si allinea alle regole ritualistiche, le quali danno alle nostre chiese un impianto più folcloristico che un impulso più dinamicamente rilevante. Se la pratica del digiuno, che ha la sua ragione d’essere quella di aiutare l’orante ad autodisciplinarsi e auto umiliarsi con la mortificazione del corpo (ma stiamo attenti che non tutti possono fare questo perché motivazioni propriamente mediche lo impongono per particolari patologie), allora essa va vissuta con la stessa motivazione spirituale con cui Gesù ha designato le precedenti forme di pietà cristiana, ossia l’elemosina e la preghiera, cui tutti i cristiani sono chiamati a realizzare, mentre la pratica del digiuno può anche essere sottesa. Se essa è oggetto di pietà cristiana, il discepolo di Gesù deve sapere che essa va vissuta senza alcun autocompiacimento e senza un’autocoscienza dell’amor proprio. Se la preghiera è cercare Dio, se l’elemosina è servire il Signore, se il digiuno è auto disciplinarsi, ma anche includente le motivazioni delle due precedenti pratiche, allora esse devono conservare la corretta, biblica natura, ossia la ricerca del volto di Dio e la sua esaltazione e non una teatrale performance del religioso amor proprio. L’ipocrisia distrugge l’integrità di queste pratiche, facendo risaltare se stessi persino se il discepolo intimamente si chiude nella propria cameretta: anche lì l’ipocrita può far risaltare se stesso, persino nell’intimità del proprio essere. Il discepolo ricordi che, nella sequela di Gesù, non c’è più spazio più per se stesso, egli deve rinnegarlo , e porre tutta la sua attenzione in colui che lo rende vero amante. La pratica del digiuno serve a quel discepolo che mostra indolenza e pigrizia, che non vuole lanciarsi nel servizio. Allora la carne, ovvero la propria natura, viene disciplinata, umiliata e punita. La natura sazia non prega volentieri e non mostra prontezza nel servizio che richiede molte rinunce.
Bene dice Bonhoeffer: … “La carne deve imparare, mediante una disciplina quotidiana e straordinaria, che non ha alcun diritto proprio. Un aiuto lo trova nella pratica quotidiana e ordinata della preghiera, come anche nella quotidiana meditazione della Parola di Dio, di aiuto è pure una molteplice pratica di disciplina e continenza. ..”[1]
noltre, aggiunge che, sebbene l’ascetismo del digiuno sia sofferenza liberamente scelta, essa può tramutarsi in passione attiva, minacciando l’opera esclusiva del sacrificio espiatorio di Gesù , rivendicando a torto di rendersi uguale a Gesù Cristo mediante la sofferenza, essendo celata la pretesa di sostituire se stessi alla passione di Cristo, e di compiere personalmente l’opera della passione di Cristo, ossia quello di uccidere il vecchio uomo.
“…. Gesù dice ai suoi discepoli che nell’umiliazione volontaria devono restare totalmente umili, che non devono mai imporla come rimprovero o legge, che, anzi devono essere grati e lieti di poter restare al servizio del loro Signore. Qui non si parla del volto allegro del discepolo come tipo cristiano, ma della giusta segretezza dell’azione cristiana, dell’umiltà, che non conosce se stessa come l’occhio non vede se stesso, ma solo l’altro uomo. Tale segretezza sarà manifestata in futuro, ma solo da Dio e mai da se stessi.”[2]
[1] Dietrich Bonhoeffer- Sequela- Queriniana ed, Bs 1975, pag. 149
[2] Dietrich Bonhoeffer-Op.Cit.- pag. 150
Paolo Brance | Notiziecristiane.com
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