Su quasi 170.000 migranti arrivati in Italia l’anno scorso, si contano oltre 20.000 minorenni. Il centro Mediterranean Hope delle chiese protestanti d’Italia è uno dei pochi ad accoglierli in Sicilia.(Gabrielle Desarzens) Si chiama Mustafa, ha 14 anni. La sua famiglia gli ha finanziato il viaggio dalla Siria all’Italia. Sedicimila euro in tutto. Sull’atlante aperto davanti a sé indica la città di Aleppo, vicino alla frontiera con la Turchia, e dice di venire da un villaggio vicinissimo a Idlib. L’adolescente indica poi la strada che ha seguito. “Sono venuto in battello da Mersin, in Turchia. Era il mio terzo tentativo. Sul battello eravamo in 250, in maggioranza donne e bambini. L’equipaggio ci ha abbandonanti, poi è finito il carburante”.
Ha avuto paura? “Ho trascorso quattro giorni in mare, senza bere né mangiare”. Poi mima un mare agitato… Il suo berretto grigio ben calcato in testa, dichiara infine, con gli occhi nocciola fissi su quelli dell’interprete: “In confronto con la situazione nel mio paese questo viaggio non era niente; ho vissuto cose molto peggiori in Siria”.
Mustafa è uno della quarantina di migranti minorenni non accompagnati accolti dal centro Mediterranean Hope, appena aperto a Scicli, nel sud della Sicilia, dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). “I minori che ci sono stati affidati dalla Prefettura di Ragusa hanno dai 14 ai 17 anni”, spiega Giovanna Scifo, responsabile della struttura. “Hanno delle storie spesso incredibili e a volte sono stati i loro stessi genitori a imbarcarli sui battelli”.
Sfuggire alle milizie
Amin viene dalla Somalia e ha 15 anni. Ha lasciato la sua terra da Hargheisa, dove rischiava di essere arruolato in una delle milizie che devastano il suo paese. Accanto a lui c’è Mahmoud, senegalese. Di una magrezza quasi patologica, dice di avere 17 anni e di venire dalla Casamance, da dove anche lui è dovuto fuggire per evitare un arruolamento forzato. “Nel deserto tra il Niger e la Libia è stata molto dura. E poi durante la traversata in mare una persona è morta. È stato orribile”.
Questi giovani sono arrivati in Sicilia appena da qualche giorno. Ancora trattenuti, è con difficoltà che si lasciano sfuggire qualche brandello del loro drammatico itinerario.
Un numero al polso
I migranti minorenni non accompagnati – che siano cristiani, musulmani, animisti o altro – sono sempre più numerosi. “Su quasi 170.000 persone sbarcate in Italia dal Mediterraneo nel 2014, devono essere più di 20.000”, stima a Roma Paolo Naso, collaboratore della FCEI. E le strutture di accoglienza a loro rivolte non sono in numero sufficiente: “Il ministero degli interni ha lanciato un appello per sollecitare l’apertura di nuovi centri specializzati per i giovani”, conferma a Ragusa il prefetto Annunziato Vardè.
A Scicli il campanello all’entrata non smette di suonare; persone che entrano, persone che escono. “Il centro di prima accoglienza di Pozzallo in riva al mare è appena stato chiuso, spiega Giovanna Scifo. Abbiamo accolto noi tutti i minori che vi alloggiavano”. Alcuni di loro portano ancora al polso un braccialetto con un numero.
A Pozzallo erano in 400 in un vasto capannone. Nessuna parete di divisione, materassi sottili e sporchi sparsi per terra uno sull’altro, uomini, donne e bambini a dividersi lo spazio senza avere il diritto di uscire. Uno sciopero della fame condotto dai migranti pare aver accelerato la chiusura del centro. La Prefettura, invece, adduce “problemi tecnici”.
Accoglienza e protezione
Incontro Francesco Sciotto, pastore metodista di Scicli, anche lui impegnato nel centro Mediterranean Hope. “’Benvenuti!’ è la prima parola da far sentire ai giovani che accogliamo”, dichiara subito. “E non è soltanto una parola: bisogna dire a questi giovani che la prima parte del loro viaggio è finita e che gli si augura che le successive siano meno drammatiche. Il rischio per loro è di finire nelle reti criminali, di diventare spacciatori o di prostituirsi. Bisogna accoglierli in luoghi protetti per evitare che entrino in queste reti che hanno già conosciuto per venire fino in Italia. Ed è facile qui entrare in contatto con la mafia che vuole sfruttarli. Sono fragili! Bisogna aiutarli a entrare in contatto con una parte sana della società”.
La vita al centro è organizzata come una enorme famiglia. I pasti vengono preparati in cucina e si consumano insieme attorno a grandi tavoli nella sala comune. I più giovani come Mustafa vanno a scuola; gli altri seguono corsi di italiano impartiti da volontari e partecipano a diverse attività culturali del luogo che funge anche da casa delle culture. A fine giornata si improvvisano giochi di carte, mentre alcuni navigano in Internet servendosi del computer in comune. Per finanziare il centro le chiese evangeliche d’Italia ricorrono al noto 8 per mille, quella quota delle tasse di cui gli italiani possono scegliere la destinazione. Ovviamente collaborano con gli altri partner presenti nel campo della migrazione, tra cui la chiesa cattolica, che gestisce diversi centri statali.
La strada della morte
Yolande è una delle rare giovani adulte presenti nel centro di Scicli. Un mese fa ha partorito la piccola Esther Sarah nel vicino ospedale di Modica. “Vengo dalla Costa d’Avorio. Ho lasciato il mio paese perché sostenevo Gbagbo (l’ex presidente) e sono dovuta fuggire con i miei amici”, testimonia. “Siamo partiti per la Tunisia in aereo e una volta arrivati lì ci siamo mossi in direzione della Libia, dove siamo stati rinchiusi in un campo in cui regnava una grande violenza. Le ragazze venivano maltrattate, violentate… Eravamo terrorizzati. Sapevamo che il Mediterraneo era la strada della morte, ma non ho osato restare da sola mentre i miei amici erano decisi a partire. Siamo riusciti a imbarcarci su un piccolo gommone, poi siamo stati raccolti da un battello più grande”.
Il pastore Francesco Sciotto parla ancora dei migranti come persone che vivono “alla periferia della vita” e con le quali bisogna fare l’esperienza dell’incontro. “Sull’esempio di Cristo, che si è recato fuori Gerusalemme per entrare in contatto con le persone che vivevano ai margini della società”. Accoglienza e integrazione sono le due parole che scandisce volentieri, “perché la loro presenza sia un’opportunità e non un problema”. Ciò detto, la chiesa può e deve, secondo lui, mostrare la possibilità di un mondo nuovo, in cui è possibile essere insieme. (La Libérté, 18 gennaio 2015; trad. it. G. M. Schmitt; fonte – voceevangelica.ch/)
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