UNA GUERRA GIUSTA NON ESISTE

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Americans_cross_Siegfried_LineIl teologo evangelico Fernando Enns interviene contro la guerra e critica la povertà di idee della politica quando si tratta di affrontare conflitti armati.

Mentre i media continuano a dare molta attenzione al tema della prima guerra mondiale, nel centenario del suo scoppio, e mentre proseguono i bombardamenti contro i miliaziani dell’IS in Iraq, il teologo evangelico Fernando Enns riflette ad alta voce sull’inutilità della guerra. E sui modi per evitarla.Attualmente tutti i media si occupano della prima guerra mondiale. Ma forse lei non ne può più di sentire parlare di guerra?
No, al contrario, credo che sia giusto che se ne scriva tanto, anche se purtroppo i media si limitano spesso ad illustrare il male invece che analizzarlo. Chi vuole comprendere temi come la pace, la seconda guerra mondiale o i conflitti attuali deve aver studiato la prima guerra mondiale.

Che cos’ha di particolare questa guerra?
È stata la prima guerra industrializzata. Mai prima di allora, ad esempio, erano stati sacrificati di proposito così tanti civili. Studiando quel conflitto, è possibile gettare uno sguardo direttamente nell’abisso della violenza umana.

Come possiamo comprendere questo abisso?
Di certo cent’anni fa si comprese ben poco, anche se la lezione avrebbe dovuto essere chiara e cioè che cadere nella spirale della violenza è terribilmente facile. E perché quella guerra continuò così a lungo, sebbene tutti avessero capito che il conflitto sarebbe diventato sempre più terribile e micidiale? Perché uscire dalla spirale della violenza è estremamente difficile. Perciò bisogna fare tutto il possibile per evitare di entrare in quella spirale.

Ma è possibile imparare quella lezione della storia? E comunque oggi siamo molto lontani da quell’Europa sul piede di guerra...
Certo, per fortuna lo siamo. Tuttavia, se osserviamo i motivi per cui oggi gli Stati europei approvano consapevolmente le missioni militari, notiamo ancora un’analogia con la prima guerra mondiale. Ciò che è in gioco, anche oggi, è potere, influenza e risorse. E si tratta, come allora, anche di ideologia: vogliamo la democrazia in Afghanistan, vogliamo vie commerciali per l’economia di mercato davanti alle coste della Somalia. Le missioni militari non vengono mai appoggiate soltanto per motivi umanitari, nemmeno quando ciò viene dichiarato in modo ufficiale. C’è sempre un secondo fine!

Rimaniamo ancora un attimo nel passato: che effetto ha avuto la prima guerra mondiale sulla teologia evangelica?
Mi sarei aspettato un cambiamento più incisivo. Certo, ci sono state delle eccezioni. Lo svizzero Karl Barth ne è la prova. Barth rimase profondamente scosso dall’incapacità dei suoi insegnanti di opporsi all’illusione della guerra e all’entusiasmo bellico. E fu turbato dal fatto che i suoi maestri legittimassero le posizioni nazionalistiche. Di conseguenza, Barth ripensò la propria teologia ripartendo dalle testimonianze bibliche. Prese sul serio la critica dell’ideologia che si trova nel Nuovo Testamento e la applicò alla sua epoca, nei confronti del comunismo, del socialismo e del capitalismo.

Lei ha parlato poc’anzi delle missioni militari. Ma esiste una guerra giusta?
Mediante la dottrina della guerra giusta, la chiesa ha cercato di dare ai governanti un’indicazione riguardo alle condizioni che i cristiani devono osservare in caso di un conflitto armato. Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e altri hanno sviluppato questa dottrina riconoscendo che chi si richiama a Gesù – il quale percorse la via della nonviolenza fino all’estrema conseguenza della croce -, e fa parte nel contempo di una chiesa di stato, si trova in un enorme dilemma. Il problema non è costituito dalla dottrina in sé: se fosse stata applicata coerentemente non ci sarebbe mai potuta essere una guerra legittimata teologicamente perché i criteri per la guerra giusta sono estremamente rigidi. Tuttavia si è così vergognosamente abusato di questa dottrina che essa merita di essere buttata nella discarica della storia. Direi di più: non può esserci alcuna guerra giusta.

Anche nessuna violenza legittima? Dietrich Bonhoeffer, teologo e combattente della resistenza contro i nazisti, ha affermato che “anche non prendere le armi può rendere colpevoli”.
Sì, non si sfugge automaticamente alla colpa rimanendo su posizioni nonviolente. Bonhoeffer era disposto a prendere su di sé la colpa quando decise di aderire al complotto che mirava a uccidere Hitler. Poté farlo soltanto perché era fiducioso che la colpa gli sarebbe stata perdonata. Nutro grande rispetto nei confronti di quella testimonianza di fede. Bonhoeffer sapeva che la sua decisione, in linea di principio, era sbagliata. Egli si ritrovò di fronte a un dilemma etico, poiché sta scritto: “Non uccidere”. Bonhoeffer si chiese: “Ci sono situazioni concrete in cui la norma di principio viene sospesa e la nostra responsabilità cristiana ci spinge ad agire contro tale norma?”. Ma sarebbe del tutto sbagliato far derivare dall’esempio particolare di Dietrich Bonhoeffer una teoria generale dell’uso legittimo della forza.

Perché? Che cosa distingue i tiranni di oggi dai tiranni della seconda guerra mondiale?
Non molto. Ma la domanda è un’altra: la riflessione di Bonhoeffer ci dice come dovremmo comportarci con il dittatore siriano Assad? E la risposta è: no! Se a Bruxelles o a Washington decido per un intervento militare metto in conto l’uccisione di molte persone innocenti. È qualcosa di completamente diverso dal tirannicidio.

Non c’è quindi alcuna giustificazione teologica per un intervento militare? La Nato avrebbe dovuto assistere alla guerra dei Balcani senza fare nulla?
Il pericolo sta proprio in questo modo di pensare privo di alternative: quando manca una soluzione politica, allora si inviano soldati. I Balcani sono un buon esempio di questa impasse. L’Occidente decide troppo presto chi sono i cattivi e chi sono i buoni. La Nato ha creato di proposito questo dualismo. Oggi abbiamo ancora a che fare con le vecchie inimicizie. La guerra non ha risolto alcun problema. Molto più coerentemente si sarebbe dovuto spingere tutte le parti in conflitto alla trattativa e fare affidamento sulle forze nonviolente che erano presenti e attive nella regione.

Puntare sulla diplomazia suona sempre bene. Ma che dire della protezione della popolazione civile in Bosnia, in Libia, nel Mali o in Siria?
È l’unica questione determinante. Proteggere le vie commerciali, prelevare risorse, combattere terroristi, esportare democrazia: nulla di tutto ciò costituisce un motivo legittimo per il ricorso alla forza militare. L’unico motivo valido, da un punto di vista cristiano, per giustificare un eventuale ricorso alla violenza è la protezione della popolazione indifesa da minacce immediate. In casi estremi la reazione armata è necessaria, su questo non mi faccio illusioni. Detto ciò, osservo che lo scopo delle missioni militari non è quasi mai la protezione della popolazione, ma l’ottenimento della vittoria e la distruzione del nemico. La comunità internazionale dovrebbe invece mettere in funzione una polizia, se necessario armata, che sia vincolata ai diritti umani e allo Stato di diritto e che faccia di tutto al fine di creare le condizioni per una soluzione nonviolenta dei conflitti.

Qual è il ruolo dei singoli cristiani di fronte a questi conflitti così complessi? A loro non rimane altro che fare da spettatori?
Questo lusso purtroppo non ci è concesso. Un cristiano non può rimanere semplice spettatore. E non dimentichiamo che quasi in ogni Paese ci sono cristiani ai quali siamo legati da vincoli ecumenici. Dovremmo preoccuparci molto di più del loro punto di vista e dare ascolto alle loro richieste. L’atteggiamento che dice: “I politici sapranno bene quel che fanno”, non si addice ai cristiani. L’errore commesso da molti cristiani, ai tempi della prima e della seconda guerra mondiale, è stato proprio questo. No, un cristiano deve guardare ai conflitti in modo critico e lasciarsi guidare dall’evangelo. Deve diventare attivo politicamente. Non far nulla non va bene, come non vanno bene gli interventi militari. Ci sono molte cose che possono essere intraprese, senza cadere nell’uno o nell’altro degli estremi. Ma la cosa più importante che un cristiano può fare, è pregare.

E pregare aiuta?
Sì! Pregare per le persone nelle aree di conflitto e per i policy maker è un compito molto, molto importante. Pregare significa includere la dimensione della fede nell’analisi politica, trovare conforto per le cose che possiamo affidare a Dio e riconoscere dove dobbiamo assumerci delle responsabilità. La preghiera chiarisce molte cose. Attualmente io prego molto per le persone in Siria. Aiuta a volgere lo sguardo verso chi ha più bisogno: figli, madri, padri, nonni, nonne. Sono loro a fornirci le direttive per la nostra azione, non un qualche opinion maker della politica o dei media. Ma prego anche per i presunti cattivi, affinché io mi renda conto che anch’essi sono madri, padri e figli. Chi prega così è in grado di resistere alla seduzione della violenza. E lo sguardo sarà libero di rivolgersi all’azione nonviolenta. (intervista di Felix Reich e Reinhard Kramm; in reformiert.; trad. it. Giacomo Mattia Schmitt e Paolo Tognina)

Fernando Enns guida il dipartimento “Theologie der Friedenskirchen” (“Teologia delle chiese per la pace”) presso l’Università di Amburgo ed è professore di teologia e etica presso la Libera università di Amsterdam. Fa parte del Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle chiese. La sua famiglia emigrò in Brasile perché il nonno, mennonita, si era rifiutato di prestare il servizio militare nell’allora Unione Sovietica. Enns giunse in Germania da bambino. In seguito studiò teologia evangelica a Heidelberg e teologia mennonita negli Stati Uniti.

Tratto da: http://voceevangelica.ch/


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