Una follia economica e ambientale: lo spreco di cibo

Una-follia-economica-e-ambientale-Lo-spreco-di-cibo_mediumImmaginate di prendere i Pil di Turchia e Svizzera, chiuderli senza differenziarli in un enorme sacchetto nero e buttarli nella spazzatura. Sì, perché nel mondo, a meno di un mese dal World Food Day, il prossimo 16 ottobre, si spreca ancora ogni anno una quantità di cibo pari a 750 miliardi di dollari, con un impatto ambientale che è inutilmente valso la produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di Co2, una quantità che colloca lo stato “del cibo disperso” al terzo posto dopo le emissioni di gas serra prodotte da Usa e Cina.

Questo è il dato più significativo che emerge dal “Rapporto sulle conseguenze ambientali dello spreco di prodotti alimentari” presentato dalla Fao la scorsa settimana a Roma e accompagnato da un manuale che fornisce una serie di consigli per migliorare l’atteggiamento “distratto” di consumatori e di produttori nel tentativo di evitare unospreco che è stimato in 1,6 miliardi di tonnellate di “prodotti primari” e in 1,3 miliardi di tonnellate di cibo già lavorato.

Il rapporto, finanziato dal Governo tedesco, è il primo studio in questo campo che analizza l’impatto delle perdite alimentari privilegiando il punto di vista ambientale ed esaminando specificamente le conseguenze che hanno su cambiamento climatico,risorse idriche, utilizzo del territorio e biodiversità, perché come si legge sul rapporto “La perdita di questa strabiliante quantità di tonnellate di cibo l’anno non solo causa gravi perdite economiche, ma anche grava in modo insostenibile sulle risorse naturali dalle quali gli esseri umani dipendono per nutrirsi”. Per dare un’idea di questo enorme inquinamento, basti pensare che per coltivare, stoccare e portare sulle tavole le tonnellate di cibo che non viene mangiato, “si utilizzano 1,4 miliardi di ettari di terreno, quasi il 30% della superficie agricola mondiale e si sfrutta una quantità d’acqua pari al flusso che il fiume russo Volga ha in un anno” ha spiegatoJosé Graziano da Silva, direttore generale della Fao. A gravare sull’impronta ecologica di questo cibo già predestinato alla pattumiera è in larga parte lo spreco di verdure (il 23%), seguito da carne (il 21%), frutta (il 19%) e cereali (il 18%). Ma è la carne quella che pesa maggiormente nella contabilità green, in particolare nei Paesi ad alto reddito e in America Latina, che insieme sono responsabili dell’80% di tutti gli sprechi di carne soprattutto a causa dei suoi costi di produzione: ne viene buttato, infatti, il 4%, ma l’incidenza economica è cinque volte maggiore a quella dei cereali dove la quantità buttata è maggiore del valore economico.

Ma non solo. Lo studio Fao rivela che il 54% degli sprechi alimentari si verificano a monte, in fase di produzione, raccolta e immagazzinaggio, mentre il 46% avviene invece a valle, nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo con differenze notevoli a seconda delle latitudini e del grado di sviluppo dei Paesi. Dal rapporto emerge così chenei paesi in via di sviluppo le perdite di cibo avvengono maggiormente nella fase produttiva, mentre gli sprechi alimentari a livello di dettagliante o di consumatore tendono ad essere più elevati nelle regioni a medio e alto reddito, dove rappresentano il 31-39% del totale, rispetto alle regioni a basso reddito ferme al 4-16%. Per da Silva “Alla base dell’alto livello di perdite alimentari nelle società opulente c’è il comportamento dei consumatori insieme alla mancanza di comunicazione lungo la catena di approvvigionamento”. I consumatori non riescono a pianificare i propri acquisti, comprano più cibo di quel che serve, o reagiscono in modo eccessivamente rigoroso all’etichetta “da consumarsi entro”, mentre eccessivi standard di qualità ed estetici portano i rivenditori a respingere grandi quantità di cibo perfettamente commestibili. Nei paesi in via di sviluppo, invece, “le perdite avvengono principalmente nella fase post-raccolto a causa delle limitate risorse finanziarie e strutturali nelle tecniche di raccolto, di stoccaggio e nelle infrastrutture di trasporto, insieme a condizioni climatiche favorevoli al deterioramento degli alimenti”. In generale dallo studio emerge che le regioni in cui il fenomeno è più marcato sono l’Asia industrializzata e il Sud Est asiatico che buttano circa il 22-28% di cibo prodotto, al terzo posto c’è l’Europa con circa il 15%, seguita da America Latina e Africa subsahariana. Le regioni più parsimoniose sono invece America del Nord, Oceania, Nord Africa e Asia centrale.

Se queste tendenze allo spreco continueranno, ben presto la pressione sulle risorse naturali più importanti diventerà inutilmente insostenibile. Per questo il Programma per l’ambiente dell’Onu (Unep) e la Fao sono tra i fondatori della campagna “Think Eat Save” lanciata all’inizio del 2013 per cercare di ridurre l’impronta ambientale e coordinare a livello mondiale chi si impegna a ridurre gli sprechi alimentari. Per da Silva è necessario che, “Tutti, agricoltori e pescatori, lavoratori nel settore alimentare e rivenditori, governi locali e nazionali, e ogni singolo consumatore, devono apportare modifiche a ogni anello della catena alimentare per evitare che vi sia spreco di cibo e invece riutilizzare o riciclare laddove è possibile”. E se mai le conseguenze ambientali di questo spreco non bastassero a far ripensare il nostro modo di produrre e di consumare, non ci resta che aggiungerle a quelle etiche: “Non possiamo permettere -ha concluso da Silva – che un terzo di tutto il cibo che produciamo finisca nei rifiuti o vada perso a causa di pratiche inadeguate, quando 870 milioni di persone soffrono la fame ogni giorno”.

I sistemi del resto ci sono e talvolta son fin troppo semplici, come ha ricordato la Fao con “Toolkit: Reducing the Food Wastage Footprint” (.pdf), il manualetto di 100 pagine che accompagna il rapporto raccontandoci come ridurre le perdite e gli sprechi di cibo attraverso la descrizione di diversi progetti che mostrano come governi nazionali e locali, agricoltori, aziende e singoli consumatori possono adottare misure per affrontare il problema. Se la riduzione degli sprechi alimentari deve diventare una priorità allora “occorre limitare le perdite produttive delle aziende agricole dovute a cattive pratiche bilanciando meglio la produzione con la domanda” ed evitando di utilizzare le risorse naturali per la produzione di cibo non necessario. In caso di eccedenze alimentari, fondamentale diventa “il riutilizzo all’interno della catena alimentare umana con la ricerca di mercati secondari o la donazione del cibo eccedente ai membri più vulnerabili della società”. E se il cibo non è idoneo al consumo umano è pur sempre possibile “destinare il cibo non utilizzato all’alimentazione del bestiame”, preservando risorse che sarebbero altrimenti utilizzate per produrre mangimi commerciali. Infine laddove il riutilizzo non fosse in alcun modo praticabile, si dovrebbe pensare “al riciclaggio dei sottoprodotti, alla decomposizione anaerobica, all’elaborazione dei composti e all’incenerimento, con un recupero di energia rispetto all’eliminazione nelle discariche”, dove il cibo non consumato diventa un grande produttore di metano, gas serra particolarmente dannoso.

In alcune di queste direzione, complice la crisi, qualcosa si muove a cominciare dai moltiprogetti di recupero del cibo non utilizzato nelle mense che in diversi comuni italiani stanno diventando un modello di contrasto alla povertà permettendo l’utilizzo del cibo fresco non sporzionato dalle mense (non solo scolastiche) per finalità di distribuzione alimentare benefica alle famiglie bisognose. Una modalità che dopo ilBanco Alimentare e Last Minute Market oggi ha con l’applicazione Bring the food e con la piattaforma web I Food Share degli strumenti efficaci che permettono anche ad utenti privati, rivenditori e produttori di offrire liberamente e gratuitamente prodotti alimentari in eccedenza, per intervenire su un disagio e contemporaneamente sensibilizzare tutti sulla riduzione dello spreco alimentare, in considerazione del fatto che solo in Italia, oggi, si producono 6 milioni di tonnellate di eccedenze e che, nonostante questo, il 12,3% della popolazione non riesce a consumare un pasto completo ogni due giorni. Un problema che può forse diventare un’opportunità per una green economy low carbon, che fa un uso efficiente delle risorse.

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