Contribuzioni in calo, vocazioni che scarseggiano e una preoccupante diminuzione dei membri di chiesa: il Sinodo ha affrontato anche il problema di comunità che si spopolano lentamente, ponendosi la domanda su come reagire all’emorragia e – prima ancora – da che cosa è provocata. Si è parlato di incapacità a motivare l’impegno nel sociale e dell’urgenza di ridefinire il senso del discepolato nell’Italia di oggi. A Sinodo concluso, approfondiamo l’argomento in una conversazione con i pastori Paolo Ricca e Giorgio Tourn.
In assemblea c’è chi ha parlato di “depennare” dal registro dei membri di chiesa chi non dà la contribuzione. E’ questa la strada?
Paolo Ricca – Depennare, cancellare: sono verbi che mi fanno inorridire se applicati a membri di chiesa, sia perché si depennano da sé, sia perché il comandamento evangelico è di cercare la pecora perduta. La devi cercare finché la trovi ma non sei tu che depenni.
Giorgio Tourn – Anche chi non viene in chiesa o non contribuisce è una delle tue pecore con cui hai un rapporto pastorale normale. E’ un valdese che si tratta di riconquistare. Se si ammala non vai a trovarlo? Se ti vuole parlare non lo ascolti? Non puoi fare come è successo alle Valli, dove sono state mandate delle lettere col verbo cancellare. E’ un abominio dal punto di vista spirituale ed ecclesiastico.
Pastore Ricca, lei ha parlato espressamente di “malattia della chiesa”. Che cosa intendeva?
Ricca – Io penso che la chiesa sia malata gravemente. Questa malattia io la constato nella disaffezione totale al culto. È rarissimo che io trovi una comunità che loda Dio e che è felice di essere lì, che vive con gioia il momento domenicale. C’è una grande carenza liturgica: il nostro culto è molto poco attraente, troppo monologico; sostanzialmente l’unico che parla è il pastore, la comunità al massimo canta. Poi dovremmo fare un discorso a parte su cosa si canta, perché le parole non sono quelle della fede di oggi, risalgono all’800 e a prima ancora; sono bellissime ma l’attualità della fede cristiana non si esprime più così. Certo, Forte rocca la canteremo anche in cielo ma è un’eccezione. C’è un problema di distacco tra come viviamo la fede e come viene cantata nei nostri innari. Da allora non abbiamo inventato altro.
Tourn – Tu ti illudi che ci sia la fede! Se non c’è una teologia non c’è un canto. Nell’800 avevano dei canti perché avevano una teologia.
Ricca – Siamo credenti o aspiranti tali con strumenti antiquati. Poi c’è il punto della predicazione. Non mi pare che il livello medio della nostra predicazione sia soddisfacente.
Tourn – La frequenza al culto è un problema. I vecchi una volta andavano in chiesa vestiti bene e poi dormivano durante il sermone: molto meglio così piuttosto che un giovane vivacissimo del giorno d’oggi che su internet si va a cercare un sermone di un bravo pastore. Perché nel primo caso quello che conta è che tu rompi la tua settimana e quella mattina non lavori. I non credenti lavoravano, mentre i credenti andavano in chiesa per un atto di fede. E’ un gesto oggettivo, io sono lì per Lui. Che poi io dorma, che il sermone sia bello o no è secondario. Nell’altro caso è una fede di tipo soggettivo e autoreferenziale. Il dramma oggi è che questa gente è convinta che sia sufficiente l’autocoltivazione e l’autoconservazione di sé. Se tu hai un bravo pastore te lo vai a leggere e ti senti edificato e non vai in chiesa. Quella è la malattia, o una forma della malattia. Sulla forma del culto, poi, sono anni che ci interroghiamo: non sappiamo dire la fede per assenza di sensibilità teologica. Questa generazione non sa cosa crede, crede frammenti di fede.
Ricca – La nostra generazione non ha fatto niente di meglio, siamo noi che non abbiamo prodotto nulla.
Tourn – Infatti la colpa è nostra che non abbiamo saputo trasmettergliela. E’ una carenza di formazione teologica. Dovremmo fare un serio bilancio di cosa è stato della nostra generazione figlia dei barthiani del dopoguerra. Non abbiamo saputo produrre una riflessione teologica abbastanza forte e chiara da agganciare le generazioni seguenti. Siamo stati ingannati dall’idea che la fede sia una presenza significativa nel secolare e questo ci ha condotti inevitabilmente a una presenza nel politico e a un impoverimento della spiritualità.
Ricca – C’è una scuola di pietà che non è stata insegnata perché probabilmente non è stata vissuta.
Tourn – Noi abbiamo investito nella testimonianza nel mondo, dove la fede in qualche modo trovava la sua espressione privilegiata. Penso alla battaglia del moderatore Bouchard sugli ospedali. Quel fronte di diaconia espresso in termini di polis era significativo dal punto di vista della fede, era così che la comunicavamo.
Ricca – E invece abbiamo perso gli ospedali…
Quindi non era vero, la fede non è stata espressa bene in quella stagione di diaconia e intervento nel mondo?
Tourn – Negli anni ’60, ’70 e ’80 la società era strutturata sulla polis e quello era il linguaggio dell’epoca, in cui abbiamo tradotto il nostro messaggio di fede. Pensiamo a Cinisello, o a Riesi: il buon Dio giudicherà se quelli che erano su quel fronte hanno testimoniato o no, ma c’è da dire che la comunità che stava dietro di loro viveva quasi per delega.
Quindi chi è andato nel mondo ha perso il contatto con la chiesa dietro di sé? C’è stata una rottura?
Tourn – La mia generazione ha dato la sua testimonianza ma non ha formato chi è venuto dopo.
I progetti della Fcei come Mediterranean Hope e il lavoro sui migranti, in termini di testimonianza si possono considerare uno “stare sul fronte” come allora, o si tratta di altro?
Tourn – Quei progetti sono la traduzione in termini evangelici della politica di papa Bergoglio. Un fare la carità.
Ricca – Bisogna dire che senza Otto per mille non ci sarebbe Mediterranean Hope. Un conto sono le risorse della fede, un conto ciò che fai perché hai soldi che arrivano da fuori; quindi ti illudi anche su te stesso, ti autoinganni. Non si dice abbastanza che certe cose le facciamo grazie all’Otto per mille.
Tourn – Il merito della nostra chiesa è di farlo bene.
Ricca – Ma senza Otto per mille non lo faresti. Qual è l’equivoco sulla diaconia? La fede si esaurisce lì e non sei neanche in grado di motivare evangelicamente il discorso a partire dal tuo rapporto con Dio. Come ha detto il pastore Langeneck durante il culto: tutto il campo delle opere risponde all’amore del prossimo, ma dov’è l’amore per Dio? La malattia è che siamo tutti volti al sociale, cosa sacrosanta, ma nel sociale esauriamo il discorso cristiano, fuori da lì siamo muti.
Tourn – Ma la radice è una questione teologica. Il professore di Sistematica della Facoltà valdese scrive un bellissimo articolo su Riforma nella domenica della Facoltà su un’assassina americana condannata a morte che è stata graziata e che si è convertita grazie all’opera di un cappellano intelligente che l’ha condotta alla fede. Ti immagini un caso del genere cento anni fa? Che cosa si sarebbe detto? Che ha incontrato Gesù. Ti innamori di Gesù, non della teologia. Lei ha incontrato Cristo o Bonhoeffer? Il professore di Sistematica dice ”si è innamorata della teologia”: cioè non usa il termine Cristo. Il fatto che tu rimuova è il problema, per di più nella domenica della Facoltà! Se non riusciamo a formulare in termini comprensibili che è l’incontro con Cristo che determina la tua vita e che cosa vuol dire, siamo muti. I vecchi pastori più che convertire fornivano il linguaggio per dire la fede mentre oggi la chiesa non lo fa.
La chiesa ha perso il linguaggio o è tiepida nel comunicarlo?
Ricca – Se accettiamo che la fede, dove c’è, è per frammenti, allora non aspettiamo di avere una fede integrale ma diciamo questa fede qua. Quello che mi manca è l’espressione della frammentarietà e della problematicità della fede cristiana.
Tourn – Va bene che la fede sia un puzzle, ma Gesù alla fine ti chiede: questi pezzi li metti insieme o no?
Ricca – Ma tu ricordi sicuramente quel brano in cui Bonheffer parla di frammenti: alcuni devono essere buttati ma altri nella loro piccolezza racchiudono tutta la luce…
C’è speranza anche nel frammento, allora. Ma la chiesa come può uscire dalla crisi?
Ricca – Ne usciamo soltanto con una presa di coscienza. E’ questo che mi manca nel Sinodo. La chiesa riconosca la sua situazione di malattia. Come dice il profeta Isaia: siamo in un torpore mandato da Dio.
Tourn – Ah, lo chiami in ballo!
Ricca – In tanti passi della Bibbia è Dio che ti mette in questa condizione perché tu prenda coscienza della tua miseria e lo invochi disperatamente. Calvino alla fine della lettera a Carlo V dice: “dobbiamo farci strada attraverso la disperazione”.
Tourn – Se è vero quello che dici, questo è l’Israele dell’epoca di Geremia.
Ricca – Io penso che sia un po’ così.
Tourn – Probabilmente c’è un senso di timore, magari inconscio, nell’arrivare a questa consapevolezza. Avventurarsi nel campo della malattia è problematico. Ed è chiaro che la testimonianza dell’amore fraterno con la diaconia non porta automaticamente a conoscere Cristo.
Ricca – Nella storia di Israele, nei momenti drammatici con un sussulto della coscienza vediamo come siamo lontani dal Signore, e che onoriamo Dio con le labbra ma non con il cuore. Dobbiamo tornare a Dio come tema: Gianni Genre ha fatto un intervento in aula dicendo che Dio non conta per nessuno; ma se non lo nominiamo mai vuol dire che non è una realtà neanche per noi. Il nesso fra la nostra vita e Dio deve essere riformulato e non presupposto come viene fatto continuamente.
Tourn – La riflessione teologica sarebbe allora questa: quello che diamo come presupposto se non è ripensato e riespresso alla fine svanisce, è come un buon vino che alla fine svapora. Meno ne parli e più lo presupponi e meno hai i linguaggi per dirlo. Non c’è il silenzio di Dio ma il silenzio nostro su Dio.
Ricca – La malattia è seria ma io credo che la luce comincia quando ne prendi coscienza, come per le malattie del corpo, perché puoi provare a reagire.
Tourn – Non avvertendo la presenza del Signore, non rendendolo presente con la nostra riflessione, riducendo il nostro discorso alla gestione “terra terra” senza alzare mai gli occhi, è chiaro che non troveremo i termini per testimoniare.
Ricca – Si può anche notare che l’Otto per mille assorbe molte energie.
Tourn – E’ una catastrofe, a livello della chiesa i fratelli non contribuiscono più perché l’Otto per mille risolve tutti i problemi e quando non ci saranno più contributi si finirà per pagare con questi fondi anche i pastori. Volete ridurre la chiesa a questo mercato? E’ un atto tale di non fede!
Ricca – E’ complicato. La scelta della nostra chiesa di non usufruire di questo Otto per mille per opere di culto è spiritualmente sana. Però quanto l’Otto per mille finanzia l’esistenza di aspetti crescenti della vita delle opere della chiesa pone un problema di vigilanza perché non possiamo più dire trionfalmente “non un soldo al culto”. Mi ha sempre impressionato quanto tempo e forze si dedicano all’Otto per mille; un enorme lavoro che conosco bene: se lo avessimo speso per evangelizzazione o altri obiettivi di carattere spirituale forse la vita della chiesa sarebbe migliore.
Tourn – Succhia molte energie anche a livello di pensiero, è costantemente presente, nel bene e nel male.
Ricca – Però come membro ormai decaduto della Commissione Otto per mille posso dire che è un bel lavoro, una bella impresa, vale la pena; nel senso che tante cose belle che non sarebbero state fatte da nessuno sono state possibili e questo va detto.
Foto P. Ciaberta
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