Un verso biblico, un’azione da completare

Di Angelo Currò, staff di Porte Aperte in Italia 

Capita di ricevere notizie di cristiani che vengono scarcerati. Alle volte al completamento del periodo di detenzione inflitta, altre su cauzione. Poche volte senza spiegazioni apparenti.

È da qualche mese che trascorro più tempo a pensare alle mie sorelle e ai miei fratelli nella fede che si trovano in carcere. Ne ho parlato durante le mie ultime visite alle chiese. In un incontro di preghiera, nella comunità che frequento insieme a mia moglie, abbiamo pregato per alcuni carcerati iraniani1, ricordando e citando i loro nomi.

Si tratta di mettere in pratica un insegnamento biblico, che troviamo scritto in maniera chiara nell’epistola agli Ebrei.2

Poi, ad un tratto, mi sono ricordato di una storia che ha acceso una luce su certe dinamiche che rischiamo di trascurare.

==>> Shiden3 ha trascorso più di dieci anni in carcere. Anni duri. Di pressione fisica, emotiva e spirituale. Ma non ha mai rinunciato alla sua fede. Altrimenti sarebbe stato scarcerato molto tempo prima.

Sono certo che nessuno di noi conosceva la sua storia prima della notizia del suo rilascio, ma sono ugualmente certo che molti di noi hanno pregato durante questi dieci anni per tutti coloro che si trovavano (e trovano) in carcere a motivo della fede cristiana. Preghiere che hanno sostenuto anche Shiden.

Poi arriva appunto la scarcerazione. Dopo più di dieci anni. Shiden esce dal carcere, e si accorge che tutto è cambiato, lui e il mondo che lo circonda. Deve abituarsi alla nuova vita. Deve riabituarsi alla vita.

Per più di dieci anni la sua normalità è consistita in interrogatori, caldo torrido, mancanza di igiene e miseri pasti.

Ecco l’aspetto che alle volte rischiamo di trascurare: non basta uscire dal carcere per tornare alla normalità. Specialmente quando la detenzione è stata molto lunga.

Ci sono casi di genitori che al loro ritorno sono considerati come estranei dai propri figli, tanto da venire chiamati signori e non papà. Certi accadimenti impattano più di una sola vita.

Ho riflettuto su questo, e ad un certo punto ho chiesto a mia moglie cosa avrebbe fatto nel caso in cui io, dopo dieci anni di prigione a causa di Cristo, fossi tornato a casa. Non ha risposto. Non ha potuto, giustamente. Ha solo detto – cito testualmente: “bisogna vedere se ci campo in quei dieci anni”4

Mi sembra che si nasconda un grande rischio nell’agire pensando solo al momento temporale espresso in Ebrei 13:35. Ricordarsi dei carcerati solo quando lo sono. E mi rendo conto che può essere facile incappare in un errore del genere.

Riporto il racconto di un mio collega: “Eravamo una cinquantina, stretti in una stanza. Il canto era silenzioso, i vicini ostili. Poi un pastore si è alzato, era anziano e magro. Appena ha cominciato a parlare è scoppiato in lacrime. Rideva e poi piangeva con singhiozzi e lamenti. Poi tutti piangevano con lui. È andato avanti così per una mezz’ora. Poi ho saputo che era stato ordinato pastore alla fine degli anni ‘50 e aveva esercitato il suo ministero solo sei mesi: è stato detenuto per VENTI anni. Dopo la sua scarcerazione è stato molto malato e solo a 77 anni ha avuto la forza di predicare di nuovo. Ovvio che sia scoppiato a piangere. Mi sono chiesto come mi sarei sentito io in quella situazione. Come si fa a predicare dopo un silenzio di 31 anni?6

Come missione abbiamo compreso da tempo quanto sia importante sostenere i cristiani perseguitati prima (preparazione alla persecuzione), durante (fare sapere che non sono soli) e dopo (ad esempio cura traumi, anche nel lungo periodo) la persecuzione.

Spero che anche voi continuerete a ricordarvi di coloro che sono usciti dal carcere.

https://www.fedepericolosa.org/un-verso-biblico-unazione-da-completare/


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