Un italiano su 12 in povertà assoluta

Essere in “povertà assoluta” significa non avere i mezzi per vivere con dignità. Secondo l’Istat sono in questa condizione 5 milioni di persone, ovvero 1,8 milioni di famiglie, l’8,3% della popolazione residente. Praticamente 1 persona su 12.

Povertà raddoppiata in 10 anni


Dopo quasi dieci anni di crisi, la povertà assoluta in Italia è raddoppiata: nel 2005 circa 2 milioni di persone si trovavano in questa condizione, ovvero il 3,3% della popolazione. Tra il 2011 e il 2013 l’incremento più drammatico: in un solo triennio i poveri assoluti sono passati dal 4,4 al 7,3% della popolazione. Nel 2017 sono l’8,3%.

Più poveri dei genitori


C’è un altro dato che emerge: la povertà continua ad aumentare tra le fasce più giovani e così aumenta anche il divario di reddito tra generazioni e inter-generazionale.

Nel 2007 l’incidenza della povertà tra i giovani tra i 18 e i 34 anni era del 2,7%. Oggi il dato è più che triplicato, e sfiora il 10%. Ed è raddoppiato se si prendono in considerazione gli adulti tra i 35 e i 64 anni tra cui ci sono molti genitori dei giovani “poveri”. Significa, scrive Emanuele Ranci Ortigosa, che a entrare in crisi sono soprattutto le famiglie. E vivere in una famiglia in condizioni di povertà penalizza seriamente le prospettive dei bambini. In assoluto la categoria più colpita.

Un rapporto del McKinsey Global Institute“più poveri dei genitori? Il reddito piatto o in calo nelle economie avanzate” rileva che tra il 2005 e il 2014 circa il 70% delle famiglie europee ha subito una diminuzione o uno stallo della propria condizione economica, che riguarda addirittura il 97% delle famiglie in Italia. I Millennials sono più poveri della generazione precedente di ben il 17%.

La spesa sociale penalizza i giovani


Osservando la ripartizione della spesa sociale tra classi d’età risulta evidente lo squilibrio. Uno studio di Openpolis suddivide la popolazione in 4 fasce d’età e mostra come la povertà tra gli anziani sia diminuita dal 4,4% del 2007 al 3,8% del 2016.

Del resto, “solo il 4% della spesa sociale va a chi ha meno di 40 anni” e diventa il 26% se si escludono le pensioni. “Mentre per gli over 65 è il 35%” scrive Boeri nella prefazione del libro di Emanuele Ranci Ortigosa “Contro la povertà”.

Disuguaglianza


Eurostat ci dice che in Italia il reddito del quinto dei cittadini più ricchi è 6,3 volte quello del quinto dei più poveri. Anche Oxfam denuncia le mancanze del sistema economico attuale, che “consente solo a una ristretta élite di accumulare enormi fortune, mentre nel mondo centinaia di milioni di persone lottano per la sopravvivenza con salari da fame”.

L’82% dell’incremento di ricchezza globale registrato l’anno scorso è finito nelle casseforti dell’1% più ricco della popolazione, mentre la metà più povera del mondo (3,7 miliardi di persone) ha avuto lo 0%.

In Italia a metà 2017, il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta mentre il 50% più povero possedeva solo l’8,5%.

L’Italia ha registrato negli anni della crisi uno dei maggiori aumenti di disparità nella distribuzione del reddito tra i paesi Ocse con il risultato che i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sempre più poveri e che la mobilità intergenerazionale è praticamente ferma.

 

Scuole senza “ascensori”



La scuola è il nostro passaporto per il futuro, poiché il domani appartiene a coloro che oggi si preparano ad affrontarlo.
– Malcom X

Chi è in difficoltà economiche vive una condizione di fragilità che gli rende difficile cogliere le opportunità, sfruttare il proprio talento, cercare di riscattarsi. Osserva Ranci Ortigosa che livelli di povertà e disuguaglianza elevati come gli attuali costituiscono un impedimento per lo sviluppo del capitale umano e per la crescita economica tali da poter essere considerati la sfida dei prossimi anni, la “questione sociale più rilevante accanto e unitamente a quelle del lavoro e dell’occupazione”. Preoccupa soprattutto la “trasmissione” generazionale della povertà, “di padre in figlio”. Già solo ridurla significherebbe mettere un freno al dilagare della disuguaglianza.

Il figlio dell’operaio farà, se è fortunato, l’operaio
“Anche l’operaio vuole il figlio dottore”, cantava Pietrangeli nella canzone diventata colonna sonora del movimento italiano del 68. Come stanno le cose oggi? Secondo uno studio di Confindustria in Italia per un 30-50enne con padre operaio la probabilità nel 2012 di essere a sua volta operaio è pari al 61,7%. Nel 1993 era al 50,5%.

Il problema si estende anche alla classe media: cala infatti, sempre tra il 1993 e il 2012, la mobilità dei figli di impiegati verso occupazioni più elevate e aumentano le possibilità per loro di diventare operai o non migliorare la propria posizione. Gli unici a non risentire del blocco della mobilità intergenerazionale sono le occupazioni più elevate, sia dirigenziali (+10,6 punti) sia come libero professionista (+3,8 punti).

Povertà educativa


In Italia il numero di bambini ed adolescenti che vivono in condizioni di povertà assoluta è più che raddoppiato negli ultimi dieci anni. Oggi sono coinvolti 1 milione e trecentomila minori, il 12,5%. Negli anni 60-70 la scuola era percepita come “ascensore sociale” che aiutava chi non aveva la fortuna di nascere nella famiglia giusta o nel luogo giusto a “spezzare la catena”.

Oggi, che l’accesso all’istruzione è alla portata di tutti (o quasi), non è più così. Anzi, rispetto ai loro coetanei, i bambini delle famiglie più povere hanno una maggiore probabilità di fallimento scolastico, di abbandonare precocemente la scuola e non raggiungere mai livelli minimi di apprendimento. Così, privati dell’opportunità di sviluppare i propri talenti, soffriranno probabilmente la privazione economica e sociale da adulti.

Secondo l’indagine OCSE-PISA (Programme for International Student Assessment), che accerta l’apprendimento dei minori scolarizzati, sono più di 100.000 su un totale di quasi mezzo milione (il 20%) gli alunni di 15 anni che non raggiungono i livelli minimi di competenze in matematica e lettura in Italia. Nella maggior parte dei casi provengono da contesti svantaggiati. I dati sono confermati anche dai risultati delle prove Invalsi 2017

Non solo, l’Italia tra i paesi Ocse ha un elevato livello di abbandono scolastico prima della conclusione della scuola secondaria superiore (circa il 50% in più della media dei paesi dei giovani tra 25 e 34 anni) e ha il 27% dei giovani tra 15 e 19 anni che non studiano non lavorano e non cercano un lavoro, i cosiddetti NEET (giovani che non studiano, non lavorano e non si formano).

Quelli che ce la fanno


La povertà economica alimenta la povertà educativa e viceversa. Un circolo vizioso che però non è irreversibile. Save The Children ha recentemente presentato lo studio “Nuotare contro corrente” che osserva i “bambini resilienti” evidenziati dalle indagini Ocse 2015. Sono quelli che seppure provenienti da famiglie svantaggiate riescono a superare i livelli minimi di competenze in matematica e lettura e ad acquistare un bagaglio di competenze fondamentale per avere un ruolo attivo nella loro comunità.

Su un totale di 500 mila alunni italiani di 15 anni, circa 130 mila vengono dal 25% di famiglie più povere. Tra questi 34 mila sono resilienti, ossia superano i test Pisa sia in matematica che lettura. Il dato non è confortante ed è inferiore alla media dei paesi Ocse (25%): i resilienti in Italia sono circa il 20% degli studenti svantaggiati, nel 2012 erano di più (circa il 24,7%).

Analizzando il background scolastico dei ragazzi resilienti si possono ricavare delle indicazioni utili per un punto di ripartenza. Ad esempio i minori che appartengono alle famiglie più disagiate che hanno frequentato un nido hanno il 39% di possibilità in più di raggiungere il livello minimo di competenze indicato dal Pisa. La percentuale sale al 100% se la scuola frequentata non deve fronteggiare problemi di disciplina. Contano anche la relazione tra alunni e insegnanti, l’interessamento dei genitori al percorso scolastico, le attività extrascolastiche.

Nonostante gli ultimi stanziamenti per l’Istruzione da parte del governo Renzi e l’aumento dei fondi europei, l’Italia resta in fondo all’elenco dei paesi Ue per spesa nell’educazione in percentuale al Pil. I tagli della riforma Gelmini del 2008 (otto miliardi di euro in meno in tre anni, dal 2009 al 2011) non sono ancora stati riassorbiti, anzi.

Nello stesso periodo di crisi, altri Stati aumentavano gli investimenti nella scuola, fino a raggiungere il 5,3 per cento del Pil. In Italia nel 2015, si scendeva al 4. Paesi con condizione simile alla nostra, con percentuali addirittura inferiori o uguali, sono la Romania (3,1%), l’Irlanda (3,7%), la Bulgaria (4%) e la Spagna (4,1%). Se si osserva il dato della distribuzione della spesa pubblica per funzione, si può notare che l’Italia spende molto di più in protezione sociale che in istruzione: il 42,6% della spesa pubblica contro il 7,9%.

https://www.rainews.it/ran24/speciali/2018/5-milioni-di-poveri-in-italia-fermo-ascensore-sociale/


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