UE e aborto: quanti distinguo per evitare la realtà

img-_innerArtFb-_europarlamento_3«Le donne devono avere pieno controllo dei propri diritti e salute sessuale e riproduttiva, anche avendo un rapido accesso a contraccezione e aborto». È quanto afferma la prima parte dell’articolo 45 del Rapporto Tarabella approvato martedì dal Parlamento Europeo, con una maggioranza formata dalle sinistre e parte del Partito Popolare Europeo. Il rapporto ovviamente parla di molte altre cose legate all’uguaglianza tra uomo e donna, ma è chiaro che l’attenzione si è concentrata soprattutto su questo articolo, visto che a ogni piè sospinto in sede UE e in sede ONU si cerca di inserire il diritto all’aborto in un qualsiasi documento, pure se si parlasse di regolamenti per il trattamento delle carni bovine.

E oggi si replica – come abbiamo già scritto – con il Rapporto sui diritti umani nel mondo, il cui relatore è l’italiano Panzeri (PD), e che promette molto peggio: oltre all’aborto si fa esplicito invito agli Stati membri della UE di introdurre il matrimonio fra persone dello stesso sesso.

Sempre ricordando che non si tratta di risoluzioni vincolanti giuridicamente, ma di indirizzo politico, non si può però sottovalutare la portata di questi voti, come invece sembrano fare diversi europarlamentari del centrodestra e i “cattolici” del PD. Ricordiamo infatti che gli onorevoli Toia, Costa, Sassoli – tanto per citare i più noti volti catto-democratici – hanno votato a favore del Rapporto Tarabella, anche se avevano votato contro l’articolo 45.

– ECCO COME HANNO VOTATO GLI EUROPARLAMENTARI ITALIANI

Con quale logica? Lo ha spiegato Patrizia Toia in una intervista ad Avvenire, nella quale ha sostenuto: che non si parla di diritto all’aborto, ma solo di accesso; che lo stesso articolo è stato “depotenziato” da un emendamento in cui si precisa che la materia è comunque di pertinenza dei singoli Stati membri (sussidiarietà); che in generale il Rapporto contiene tante altre cose buone che non si poteva rigettare in blocco.

Bisogna aggiungere che il PPE ha fatto un ragionamento simile, chiedendo di votare contro l’articolo 45, ma lasciando libertà di coscienza per il voto finale (ovviamente i socialisti hanno negato questa libertà di coscienza).

Vale la pena soffermarsi brevemente su queste argomentazioni perché sono all’origine di molte ambiguità ed errori di valutazione, non solo in Europa ma anche in Italia. È la posizione tipica di chi vuole salvare capra e cavoli, di conciliare cose inconciliabili, di chi spaccia per realismo politico l’attitudine al compromesso su tutto pur di stare a galla.

È giusto esprimere soddisfazione almeno per il successo dell’emendamento-sussidiarietà, ma basta davvero questo per rendere meno pericolosa questa risoluzione? Intanto bisognerebbe fare una considerazione di carattere generale: una risoluzione così come una legge, non è la semplice somma di un numero imprecisato di articoli senza collegamento fra loro. È chiaro che dietro c’è una mens, una concezione della vita e delle relazioni che informa di sé tutto il provvedimento. Nella fattispecie, se si arriva a un certo punto a stabilire l’aborto come un diritto c’è all’origine una concezione insana del rapporto di uguaglianza tra uomo e donna, una visione antropologica perversa che arriva a concepire l’eliminazione di vite umane come un diritto e come un servizio da garantire. Non significa che tutti gli articoli siano da bocciare, ma nel momento in cui si dà una valutazione generale della risoluzione, non si può evitare un giudizio di fondo.

In ogni caso è curioso il ragionamento per cui se ci sono tante altre cose buone, una risoluzione si deve votare anche se prevede l’aborto. È come se si presentasse una legge in cui un articolo preveda l’eliminazione fisica di tutti i cittadini tra i 20 e i 25 anni, ma poi per il resto si preveda scuola e casa gratis per tutti, pensioni adeguate e fantastici servizi pubblici per tutti. Chi voterebbe una legge così che pur prevede tante cose buone?

Eppure è un ragionamento molto più comune di quanto si creda, basti ricordare l’esempio della riforma sanitaria negli Stati Uniti voluta da Barack Obama: nel pacchetto di provvedimenti per allargare l’assistenza sanitaria in favore dei più poveri, c’era dentro anche l’obbligo per i datori di lavoro di garantire la copertura assicurativa per contraccezione e aborto. Posso ben ricordare come tra i vertici cattolici italiani fosse incomprensibile la posizione dei vescovi americani che si erano schierati immediatamente e duramente contro la legge proprio perché prevedeva queste disposizioni. «Non si può bocciare una legge che fa molto bene ai poveri solo perché è previsto anche l’aborto», era l’argomentazione.

È evidente che qui c’è una incomprensione sulla gerarchia dei valori, o meglio: è qui che si capisce la differenza tra princìpi e valori. Mentre le vie per aiutare i poveri sono diverse e a volte anche opinabili (la stessa riforma sanitaria americana ne è un esempio), la vita è un principio non negoziabile. In nessun caso si può sacrificare il diritto alla vita per salvare altri valori.

Il discorso della signora Toia, dunque, e di quanti in politica – e non solo – ragionano come lei è semplicemente inaccettabile. Una qualsiasi legge, o risoluzione o dichiarazione che contenga tante cose buone ma preveda anche il diritto alla contraccezione e all’aborto è cattiva, da rigettare. Punto.

L’altra questione che merita un chiarimento è quella riguardo al diritto all’aborto. Si dice che in questa risoluzione non c’è un «diritto» all’aborto ma solo l’«accesso». Qui credo ci sia una forte confusione sui concetti, forse anche condizionati dal fatto che da molti anni va avanti una martellante campagna internazionale che mira a inserire l’aborto tra i diritti umani fondamentali.

In questo senso è vero che il Rapporto Tarabella non si spinge fin lì, anche se nei documenti internazionali un piccolo passo è sempre il punto di partenza per il passo successivo fino al raggiungimento dell’obiettivo voluto. Ma non tutti i diritti sono fondamentali. Usare mezzi pubblici di trasporto è un diritto, ma certamente non è catalogabile tra i diritti umani fondamentali.

Però laddove si prevede un dovere dello Stato di elargire un servizio corrisponde il diritto dei cittadini a usufruire di quel servizio. Quindi l’articolo 45 del Rapporto Tarabella sancisce innegabilmente un diritto, legato per di più ai diritti riproduttivi e sessuali di ogni donna. Lo stesso discorso vale per la legge italiana 194 sull’aborto. Anche in questi giorni abbiamo sentito qualche cattolico sostenere che in Italia non c’è un diritto all’aborto, che anzi sarebbe un reato. Ora, pur senza considerare le ragioni e il clima culturale che hanno portato alla legge 194, visto che l’aborto è fra i servizi sanitari di base; che deve essere garantito anche in presenza di medici obiettori; che per i primi 3 mesi è praticamente a richiesta e successivamente lo si può ottenere a certe condizioni, come si fa a dire che non è un diritto? Come può costituire un reato una pratica che in 35 anni ha provocato 5 milioni e mezzo di vittime senza che nessuno sia mai stato non dico condannato, ma neanche denunciato?

Evidentemente qui c’è chi gioca con le parole per non riconoscere la realtà, per mettere in pace la coscienza salvando le proprie opzioni politiche. E vedremo oggi sul Rapporto Panzeri come andrà. Bene, si sappia però che noi a questo gioco non ci stiamo, neanche in nome dell’unità del mondo pro-life e pro-family.

di Riccardo Cascioli

Tratto da: http://www.lanuovabq.it/


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