Ucraina, Europa. Un reportage racconta la guerra civile che da mesi divide il paese. “Ma quando la città era occupata dai russi tu lavoravi?” “Sì, portavo le gente via fuori da Sloviansk, quelli che potevano tra aprile e giugno sono tutti andati via, molti hanno chiuso l’attività e se ne sono andati anche se la loro casa era a posto, troppo rischioso restare qui”.
Foto sopra: Stefano Stranges. Kiev, Maidan. Giovani militanti nazionalisti pronti a dirigersi verso est. Sullo sfondo uno striscione bianco con scritto “Filaret Eroe della Patria”
Il tassista guida in mezzo alle buche e ai cavi della corrente che sono caduti e che adesso i militari ucraini stanno ritirando su. Ci porta a vedere i colpi di mortaio che hanno colpito diverse case; pochi invece i segni di kalashnikov sui muri e nelle strade. “Non c’è stato scontro armato quando abbiamo ripreso la città, lo scorso 6 luglio. I militari e i volontari ucraini avrebbero voluto entrare e fare fuori tutti i russi e i separatisti, ma gli ordini erano chiari, abbiamo assediato la città e dopo molte trattative li abbiamo fatti uscire. Sappiamo che alcuni si sono travestiti e sono rimasti qui in città; del resto alcuni sono cittadini di Sloviansk”.
Il poliziotto che prima ci aveva chiesto se avevamo il permesso di fotografare, si è un po’ ammorbidito e mette insieme i pezzi di un puzzle poco chiaro. Sloviansk era stata occupata il 12 di aprile: “Sono venuti da fuori, avevano la divisa senza mostrine e parlavano russo”. Ma qui tutti parlano russo: “Questi erano russi, avevano i rubli e li usavano per comprare le cose nei negozi”. Olga Vladimirova ha 60 anni e fa la bibliotecaria. Insieme ci incontriamo in uno dei pochi caffè appena riaperti.
Foto Stefano Sranges: Slovyansk. Un’attivita’ commerciale devastata dai colpi di mortaio durante gli scontridi luglio. Sullo sfondo la Chiesa Ortodossa del patriarcato di Mosca
“Io sono bibliotecaria in città. Conosco tutti i giovani studenti. Io c’ero ai tempi dell’Unione Sovietica e mi avevano mandato qui a lavorare dopo l’università a Kiev. Con la guerra tutti sono scappati e anch’io sono andata a Donetsk a giugno perché là ho dei parenti ed era più sicuro. Ma ora sono tornata qui perché finalmente si riprende a lavorare”. La farmacista non vuole parlare ma un tabaccaio conferma che negli ultimi tre mesi sono circolati molti rubli.
Irina vive nella casa di fronte al memoriale per i caduti della seconda guerra mondiale. Lì hanno trovato ormai da un paio di settimane una fossa comune. Ci parla dei colpi di mortaio che hanno colpito l’ospedale dei bambini di fronte a casa sua. “Non so chi abbia sparato ma so che molti degli uomini che conosco sono andati a combattere con i separatisti. Non li capisco: è vero che non si stava bene, ma perché un’altra repubblica come quella di Donetsk? Abbiamo già l’Ucraina, anche se non abbiamo potuto votare per le elezioni del presidente. Molti di quelli che sono arrivati qui a combattere venivano da fuori e hanno convinto i disoccupati locali, arrabbiati contro il governo corrotto”.
Sopra le corone di fiori ci sono quattro fotografie: sono fedeli di una chiesa evangelica. Ci mettiamo un po’ a trovarla anche se in giro si parla di due pastori uccisi. La signora delle pulizie non vuole farci entrare. Le dico che sono un pastore anch’io. Il padre dei due ragazzi è un pastore anche lui ma è via, sarà lei a farci da guida.
La chiesa della Trasfigurazione del Signore è un teatro di stile sovietico completamente ristrutturata. 400 membri di chiesa, sala con 500 posti in velluto rosso. Stucchi italiani dorati, foto di attività diaconali e di evangelizzazione nella piazza del mercato. I suoi figli studiano in Oregon. Forse la loro colpa è stata questa, troppi soldi, vestiti eleganti. Una chiesa troppo indipendente o troppo vicina agli occidentali.
Foto Stefano Stranges: Kiev
L’8 giugno all’uscita dal culto li hanno caricati di forza su un Suv e li hanno portati via, i due figli del pastore e due diaconi della chiesa, sui 25 anni circa i primi, 40 i secondi. Li hanno cercati a lungo pensando fossero stati messi a scavare le trincee fuori città come molti altri ma non li hanno trovati. In realtà sono stati uccisi probabilmente il giorno dopo e poi messi in questa fossa insieme ad altri. Fuori città ci dicono che ce ne sono altre e anche nei paesi vicini.
Quelle con i cadaveri degli ucraini hanno poca terra sopra e si sente l’odore quando tira vento; in quelle dove hanno messo i loro soldati invece dicono che ci hanno messo le mine. I giornali occidentali faticano a parlarne e spesso spacciano come scoop notizie di una settimana prima. Adesso dopo l’incidente dell’aereo malese si parla di sanzioni verso la Russia e di tracciati radar. In piazza del comune ritroviamo i simboli del comunismo: una statua di Lenin mastodontica domina sulle liti furiose dentro il palazzo comunale.
Una delegazione di cittadini assedia un’eletta della nuova giunta. L’accusa è che ci siano ancora alcuni di quelli che hanno aiutato i separatisti e pare che abbiano truccato le liste di chi riceve cibo e aiuti per la ricostruzione. La corrente in molte zone manca ancora, i cortili con le macerie sono meno allegri con il buio e siamo ben contenti di chiuderci in albergo. Verremo svegliati da paramilitari che scaricano armi e masserizie nel retro dell’albergo: uno dei tanti gruppi di volontari che si comprano da soli giubbotto antiproiettile, kalashnikov ed elmetto e si affiancano all’esercito regolare in battaglioni privati.
A Kiev, le madri sono una trentina, stanno accampate sotto il palazzo del governo da alcuni giorni. Vogliono sapere che ne è stato dei loro figli e mariti. Il governo ha spedito al fronte i ragazzi di leva e alcuni richiamati, ma non hanno attrezzature e sono male armati. Il business delle forniture militari negli ultimi anni ha alimentato le mazzette. Nessuno dei governi degli ultimi vent’anni può essere considerato immune dalla corruzione, che ha portato all’arricchimento di pochi oligarchi e alla distruzione progressiva dell’esercito. Il risultato è che ora ci sono pochi mezzi. I battaglioni di volontari spesso ricevono una benedizione nella tenda di preghiera che è ancora in piedi a Maidan.
Una piccola chiesa in legno prefabbricata da alcuni mesi è stata eretta vicino alla piazza dove ci sono le foto dei 106 morti ufficiali della protesta di Maidan, la centinaia celeste. Sono considerati dai cittadini come martiri della libertà a cui chiedere intercessione. Le chiese sono state molto coinvolte nella protesta, soprattutto quella greco-cattolica e quella ortodossa del patriarcato di Kiev. La dimensione religiosa e quella dell’indipendenza nazionale sono state il collante della protesta in inverno e lo sono anche oggi che la popolazione si organizza per la guerra all’est. Marusja gestisce un’agenzia pubblicitaria con altri due soci e ha partecipato alle proteste di Maidan; da sei mesi è membro di Pravi Sector, un’organizzazione nazionalista paramilitare, e insieme alla madre ha allestito un campo di allenamento nei boschi poco lontano da Kiev.
“La maggior parte della gente a Maidan protestava contro la corruzione del governo. In molti anni di militanza politica non sono riuscita ad ottenere nulla: adesso ho 38 anni e voglio che qualcosa cambi. Ho messo in piedi questo campo di addestramento, aperto anche alle donne, perché tutti devono essere pronti nel caso la guerra arrivi anche qui a Kiev”. Mentre parla, sotto il diluvio una trentina di persone corrono nel fango, si arrampicano e si sdraiano di fronte ad un bersaglio agli ordini dei paramilitari in mimetica. “Slavia Ucraine!”, gloria all’Ucraina, ci salutano quando ripartiamo.
È la parola d’ordine di tutti, di quelli che a Maidan quest’inverno hanno buttato giù un governo corrotto e troppo amico di Putin. Anche il nostro autista Sergeij era lì, ma come poliziotto; poi si è reso conto che la milizia speciale, i berkut, erano armati molto meglio di lui e sparavano contro la folla; che il suo governo non gli pagava più lo stipendio da mesi e lo spediva contro altri cittadini che erano arrabbiati quanto lui e allora se n’è andato. Adesso fa l’autista privato e manda curriculum in giro. Guida il furgone in mezzo al fango con la facilità del militare di professione e ci spiega che questi gruppi di volontari al fronte ci vanno in pochi.
Pravi Sektor è nato a Maidan, anche se alcuni gruppi che fanno parte di questo cartello nascono ben prima; il più noto, Tryzub, si rifà all’ultranazionalista Stepan Bandera, ucciso a Monaco nel 1959 dal Kgb. Sono per i valori tradizionali e spesso hanno organizzazioni militari alle spalle: eppure alle elezioni presidenziali il loro leader, Yarosh, ha preso solo lo 0,9 %. Quando ci invitano alla loro manifestazione di protesta davanti al Palazzo presidenziale, per chiedere più mezzi al fronte e un intervento più deciso del presidente contro i russi e i separatisti, sono solo un centinaio: alcune ragazzine adolescenti, qualche giovane in mimetica, molte bandiere e persino qualche signora di mezz’età.
Molti si chiedono chi davvero abbia interesse a dare tutto questo spazio mediatico in occidente a gruppi così piccoli; c’è da chiedersi chi fornisce loro le armi e i soldi per le attrezzature. I ragazzi dell’ufficio stampa, completamente nuovo con pc e mobili Ikea in un cortile discreto dietro Maidan, ci dicono che sono offerte e doni personali. Eppure da più parti si parla di un appoggio a questi da parte della Russia stessa, che avrebbe interesse a destabilizzare l’Ucraina e a presentare il governo di Kiev come legato a gruppi fascisti.
Foto Davide Rostan: Le madri dei soldati protestano davanti al palazzo presidenziale
“Geroiam Slava!”, onore all’Ucraina, onore agli eroi! Anche nella discoteca gay la folla risponde al saluto delle drag queen. La difesa della propria indipendenza da Mosca sembra essere la parola d’ordine che attraversa il paese: dai militari di destra ai civili che tornano a casa all’est; dalle chiese ortodosse e cattoliche ai tassisti di Kiev. Chi ha inventato allora la repubblica di Donetsk? “Il 28 aprile a Donetsk c’è stata una piccola manifestazione, duemila persone che protestavano contro l’occupazione ed erano pro-Kiev. Poi però sono arrivati i titushki, mercenari russi dal volto coperto, ci hanno picchiato, mentre la polizia locale non faceva nulla. E il giorno dopo sulla stampa popolare localec’erano delle immagini e dei servizi che dicevano che i nazionalisti di Kiev avevano picchiato i civili”. Sergiej Tolmachenko e la moglie sono stati costretti dalla guerra a venire a vivere a Kiev.
“Ci hanno fatto credere che a Kiev ci fosse stato un golpe organizzato da Pravi Sector e dagli occidentali e che il governo di Mosca ci avrebbe protetti. In realtà a Donetsk i fascisti non li ha mai visti nessuno, c’erano solo i mercenari infiltrati dai russi”. Nel sottosuolo del Donbass, come in molte altre zone, c’è il gas. Gia nel 2011 il governo ucraino e la Shell, la multinazionale olandese degli idrocaburi, avevano firmato un accordo di esplorazione per permettere all’Ucraina di rendersi più indipendente dal punto di vista energetico, ma Mosca era riuscita comunque a strappare al governo degli accordi per le forniture e un accordo con la Gazprom. Poi gli eventi l’inverno scorso sono precipitati.
A giugno l’esercito ucraino ha ricominciato a conquistare alcune città dell’est: la guerra è appena cominciata. Un aereo civile è stato abbattuto un mese fa e Kiev accusa Putin di aver fornito i lancia razzi ai mercenari filorussi; dal canto suo, il presidente russo in conferenza stampa presenta il governo di Kiev come illegittimo e non in grado di garantire la sicurezza sul proprio spazio aereo. Però adesso che sono morti 300 cittadini occidentali non si potrà più parlare di guerra civile ucraina e occuparcene solo quando arriva la bolletta del gas.
Fonte: http://www.riforma.it/
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