Mentre sulla penetrazione di Pechino in Africa (avviata già da tempo, quasi una scelta obbligata, strategica per la Cina) si spendono parole – anche a sproposito – meno evidente (almeno stando ai media) appare quella di Ankara. Nonostante sia attiva quasi da un ventennio. Tanto che se ancora nel 2009 aveva in Africa solo 12 ambasciate, attualmente sono salite a 43. E quasi altrettante sono le metropoli africane dove fa scalo la Turkish Airlines.
Tornando solo per un momento alla Cina, prendeva l’avvio il 9 gennaio la visita africana di Qin Gang, ministro degli Esteri cinese. Durata prevista, una decina di giorni. Facendo tappa in Etiopia, Angola, Egitto, Benin e Gabon (non necessariamente in quest’ordine). Tra gli incontri previsti, Moussa Faki Mahamat, presidente della commissione dell’Unione africana e Ahmed Aboul Gheit, segretario generale della Lega araba.
Lo aveva preceduto di un giorno, sbarcando in Sudafrica, (dove ha inaugurato il nuovo Consolato generale) quello turco Mevlut Cavusoglu. Per poi continuare con Zimbabwe, Ruanda, Gabon, Sao Tomé e Principe (ancora non necessariamente in quest’ordine).
Il partenariato, la cooperazione con i Paesi africani per Ankara si conferma essenziale, di primaria importanza.
Anche in Paesi poco ambiti come la Somalia dove la Turchia è attivamente presente da oltre un decennio con investimenti, sia nella realizzazione di infrastrutture che fornendo addestramento militare contro al-Shabaab (oltre a mantenere scali permanenti a Mogadiscio per la compagnia di bandiera). Attualmente i soldati turchi sono presenti, oltre che in Somalia (base militare di Camp Turksom), in Mali (dove Cavusoglu è stato tra i primi a incontrare il golpista Assimi Goita), in Centrafrica e a Gibuti. Oltre ovviamente alla Libia (ma questo è risaputo).
E’ anche possibile che Erdogan stia cercando di riempire con le proprie forze militari il vuoto lasciato da Parigi con la conclusione dell’Operazione Barkhane nel Sahel.
Del reato ancora cinque anni fa Ankara aveva messo a disposizione dei G5 ((Burkina Faso, Mauritania, Mali, Ciad e Niger), in sofferenza a causa dell’estremismo islamico, cinque milioni di dollari. Siglando inoltre accordi in materia di difesa con Nigeria, Togo, Senegal e Nige.
Comunque significativa (in generale) la crescita accelerata delle esportazioni in Africa di armamenti turchi. Dalle armi leggere e pesanti a blindati, carri armati,equipaggiamento navale, elicotteri armati e – ovviamente – tanti droni, sia armati che di sorveglianza. Analogamente al settore aerospaziale. Con prezzi concorrenziali rispetto ai fornitori tradizionali (Cina, Francia Russia, Stati Uniti…) e soprattutto senza tante pastoie burocratiche inerenti ai diritti umani. Per cui se nel 2020 si parlava di circa ottanta milioni di dollari, oggi siamo a oltre 460 milioni.
Armi che solo in parte servono ai governi africani (sempre più in via di militarizzazione, almeno una quindicina gli acquirenti africani di carri armati turchi) per contrastare l’avanzata jihadista o il diffuso banditismo (giustificazione ufficiale per l’aumento delle spese militari), ma anche per reprimere le insorgenze etniche e sociali.
E questo il caso dell’Etiopia accusata di aver impiegato i droni turchi TB2 (meno costosi e più facili da manovrare rispetto a quelli israeliani e statunitensi) contro gli insorti del Tigray. E qualcosa del genere si teme possa accadere in Nigeria a danno delle popolazioni indocili del Delta. Del resto erano droni con la garanzia, in quanto lungamente sperimentati in Rojava e Bakur contro i Curdi e in Nagorno Karabakh contro gli Armeni.
Ma l’attivismo di Ankara non si limiterebbe al piano militare e a quello economico. Non mancano infatti anche tentativi, ambizioni di esercitare una certa influenza (“egemonia” ?) sul piano culturale. In senso lato, ovviamente. Pensiamo per esempio allo sport in generale e al calcio in particolare. Tanto che Erdogan si è spinto a definire la Turchia una “nazione afro-eurasiatica”.
Non tutto procede sempre liscio tuttavia. Quando l’anno scorso, in febbraio, Erdogan era sbarcato in Africa (in compagnia di ben sei ministri), aveva in progetto di visitare, oltre a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) e Dakar (Senegal, dove la Turchia è presente da almeno un decennio nel settore energetico, finanziario, telecomunicazioni, miniere, industria tessile…), anche Bissau (Guinea-Bissau). Ma questa aveva dovuto saltarla rientrando di corsa in Turchia per assistere (da Ankara, in video conferenza) alla riunione d’urgenza della Nato (vedi la guerra in Ucraina). Viaggio evidentemente nato sotto una cattiva stella. A Dakar era improvvisamente deceduto per infarto Hayrettin Eren, capo della sicurezza.
Gianni Sartori
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