La situazione dei cristiani iracheni rifugiatisi nel paese per sfuggire all’ISIS non migliora. Non possono né lavorare né partire per mancanza di visti. (Stéphane Amar) La chiesa è arroccata su una graziosa collina di Amman, non lontano dall’aeroporto. L’edificio, nuovo di zecca, è fiancheggiato da una piccola pineta nella quale è stato realizzato un asilo infantile. Uno scenario bucolico molto distante dalle terre maledette di cui è originaria la dozzina di famiglie cristiane che vive qui. “Veniamo tutti da Mossul”, racconta Bashar, un energico quarantenne, commerciante in un’altra vita. “Siamo arrivati tutti durante l’estate del 2014, quando il Daesh [lo Stato islamico, ndr.] ha invaso la nostra città”.
Alternativa spietata
Le truppe dello Stato islamico entrano a Mossul il 16 giugno 2014. Come spesso accade, l’esercito iracheno ha opposto una resistenza piuttosto fiacca e i barbuti trionfanti marciano dentro Mossul sventolando la nota bandiera nera.
La presa del potere è meno violenta del previsto, ma la sorte dei cristiani viene rapidamente decretata. “La prima cosa che hanno fatto è stata scrivere sulla facciata della nostra casa la lettera ‘N’ con vernice rossa”, racconta Bashar, mostrando la foto di casa sua sul suo cellulare. “Significa ‘cristiano’ in arabo. Erano stati i nostri vicini musulmani a informarli. A fianco hanno scritto: ‘Questo immobile appartiene allo Stato islamico’. Non si tratta ovviamente di un vero Stato, ma per noi voleva dire che bisognava partire”.
Il destino dei cristiani
Seduto accanto a lui su un logoro divano, il suo ex vicino conferma. “All’improvviso persone con cui vivevamo e facevano affari da sempre sono diventate nostre nemiche. Hanno saccheggiato le nostre case e dei combattenti del Daesh sono venuti ad abitarci”,
Contrariamente ai timori dei cristiani gli islamisti non sgozzano a tutto spiano. Ma li pongono immediatamente davanti a una alternativa spietata: la conversione all’islam o il pagamento dell’imposta che il Corano esige dai non musulmani appartenenti alle religioni del libro (ebrei e cristiani): la Jizya. “Abbiamo preferito partire, perché avrebbe significato una vita di sottomissione e di umiliazione”, sospira Yacer.
Dopo l’invasione
In realtà per i cristiani dell’Iraq l’invasione islamista è stata soltanto l’ultimo episodio di una lunga discesa agli inferi. Le prime atrocità risalgono al 2003, subito dopo l’intervento militare americano e la caduta di Saddam Hussein. “Ci proteggeva”, dicono. Dal crollo della dittatura le milizie islamiste prosperano e i cristiani sono le prime vittime del caos. Si taglieggiano i loro negozi, si aggrediscono le loro figlie, a volte persino li si uccide. In tutta impunità. Decine di migliaia di cristiani hanno scelto la via dell’esilio. Gli altri sopportano con pazienza, pregando per un ritorno della tolleranza religiosa. La folgorante ascesa del Daesh spegne le loro ultime speranze. Vent’anni fa c’erano in Iraq quasi due milioni di cristiani. Ne restano alcune migliaia. “La nostra dottrina cristiana ci ha insegnato a non odiare nessuno. Perdoniamo quindi coloro che ci perseguitano. Ma è profondamente ingiusto, perché noi siamo i legittimi abitanti di questo paese. I cristiani vi erano insediati molto prima che esistesse l’islam”, sottolinea Bashar.
Fine di una presenza
La fuga viene organizzata precipitosamente. Abbandonando case e mobilia, i cristiani prendono la via per il nord, verso il Kurdistan iracheno. In pieno caos le strade restano aperte e i curdi si mostrano compassionevoli. All’aeroporto di Arbil la maggior parte dei profughi prende il volo per la Giordania, l’unico paese arabo, insieme con il Libano, disposto ad accogliere i perseguitati. “Il re di Giordania ci ha aperto le porte del suo regno. Gli siamo riconoscenti, ma qui non abbiamo alcun futuro”, rileva Farah, moglie di Yacer.
Sebbene accolga sul suo suolo oltre un milione di profughi siriani e iracheni, la Giordania vieta loro di lavorare. Il regno hascemita è quindi soltanto una tappa intermedia verso l’Europa, l’Australia o le Americhe. “Ci avevano detto che saremmo rimasti qui dai quattro ai sei mesi, ma ormai è più di un anno che aspettiamo”, inveisce Samer, un corpulento nonno con indosso l’abito buono. Sul grande schermo del televisore appeso alla parete della sala da pranzo si vedono ogni giorno le migliaia di migranti che prendono d’assalto l’Europa. “ lui si arrabbia: “Sono tutti clandestini, mentre noi siamo iscritti ufficialmente all’ONU come rifugiati. Invece di darci la priorità ci fanno aspettare qui senza informarci. Persino il Vaticano ci ha abbandonati”.
Abbandonati dall’Occidente
Visti che non arrivano, sovvenzioni promesse ma mai versate, una certa indifferenza mediatica: i cristiani d’Oriente non riescono a capire perché l’Occidente cristiano non faccia di più per loro. “Eppure la nostra presenza in Europa potrebbe ravvivare la fiamma del cristianesimo”, suggerisce padre Charbel Zreib, un cristiano libanese in missione tra i rifugiati. “Nella nostra storia ci sono sempre stati periodi in cui siamo stati perseguitati e altri in cui abbiamo riacquistato i nostri diritti. Non sono preoccupato”.
I suoi fedeli sono meno ottimisti. Chiunque qui sembra essere consapevole che sta per voltarsi una pagina. Quella di una presenza cristiana bimillenaria in Oriente. (da Réforme, trad. it. G. M. Schmitt/voceevangelica.ch)
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