Cavie umane in un laboratorio a cielo aperto ecco le sostanze pericolose.
Ogni indumento acquistato può contenere tracce di residui tossici utilizzati per la lavorazione o la tintura. Quasi tutti vietati dalle normative europee, ma ammessi nei luoghi di produzione. Impariamo a riconoscerli e a starne lontani. La moda “tossica” non fa male solo a chi la produce, ossia i lavoratori delle fabbriche dislocate nei vari sud del mondo costretti a produrre in condizioni di vera e propria schiavitù. I vestiti possono risultare dannosi anche per chi li indossa nel nostro mondo occidentale. Infatti, ogni indumento che compriamo può presentare tracce più o meno importanti delle sostanze chimiche impiegate durante la lavorazione. E non c’entra il tipo di tessuto. Non sono le fibre, artificiali o naturali, a costituire il problema ma le migliaia di preparati o miscele utilizzati nel lungo processo produttivo: coloranti, sbiancanti, fissatori, anti-piega, antiossidanti, ammorbidenti, detergenti, antistatici, antimuffa, stabilizzanti, solubilizzanti, ignifuganti funghicidi e altro ancora.
Un bombardamento che lascerà sul nostro vestito tracce più o meno elevate di:
formaldeide, coloranti allergenici, pentaclorofenoli, ftalati, ma anche metalli pesanti come cromo, nichel, cadmio, arsenico, piombo, mercurio.
Alcune di queste sostanze sono state oggetto di ricerche e di studi a livello internazionale che hanno portato all’emanazione di specifiche normative europee che ne vietano o ne limitano l’utilizzo vista la potenziale tossicità. Ecco quali sono:
Carrier alogenati. Sospettati di essere cancerogeni per l’uomo, sono altamente nocivi per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata. «Sono sostanze organo-clorurate che vengono utilizzate per consentire la tintura a bassa temperatura del poliestere e delle sue miste. In Europa ne è stato vietato l’impiego» dice Mauro Rossetti, direttore dell’associazione biellese Tessile e Salute, formata da medici, produttori, ricercatori e consumatori per garantire la produzione, la vendita e il consumo di articoli tessili più sicuri per chi li produce e per chi li acquista. «Esistono sistemi alternativi — continua Rossetti — perché la tintura del poliestere può essere anche effettuata ad alta temperatura, utilizzando carrier non alogenati, meno tossici. Il processo risulta però più costoso, perciò nei Paesi extraeuropei, la tintura con carrier alogenati resta sempre la più diffusa, ma anche da noi, complice l’assenza di metodi di controllo, c’è ancora chi continua a usarli».
Coloranti azoici. Continuano a essere largamente usati per la tintura dei filati, malgrado rilascino 22 ammine aromatiche di cui è stata accertata la cancerogenicità. Una direttiva europea (recepita in Italia nel 2005) non ne vieta l’utilizzo, ma solo la presenza residua sul prodotto finale. Ne fa parte anche il gruppo dei “dispersi” così chiamati perché nell’acqua si disperdono ma non si sciolgono; per questo motivo si legano poco stabilmente con le fibre sintetiche mentre, essendo liposolubili, hanno affinità con le sostanze grasse e quindi vengono facilmente assorbiti dalla cute. Se il vostro capo perde colore è stato quasi sicuramente tinto con queste sostanze.
Formaldeide. È un gas ampiamente usato lungo tutto il processo produttivo: come fissativo di tinte e pigmenti, nelle fasi di stampa dei tessuti, per mantenere la piega degli indumenti e come conservante nelle fasi finali del confezionamento. La normativa europea (ma è così in molti altri Paesi occidentali) impone che il residuo di formaldeide sui prodotti finiti non superi lo 0,02 percento, perché, se inalata, provoca forte irritazione agli occhi e alle prime vie respiratorie. In caso di prodotti destinati all’infanzia, i residui devono essere del tutto assenti.
Nichel. Non pensate solo a quello che “si vede”: bottoni, fibbie, borchie o zip. Nelle analisi fatte su abiti sospettati di aver provocato problemi alla pelle, capita spesso di trovare tracce consistenti di nichel rilasciato dai coloranti usati per tingere. Le norme europee ne vietano i residui sui capi di vestiario (o su quelle parti di essi) che possono venire a contatto con la pelle, perché fortemente allergizzante
Ftalati. Additivi usati in maniera molto diffusa per ammorbidire la plastica. Si possono trovare sui capi di abbigliamento perché vengono impiegati per realizzare le stampe plastificate che ornano molto spesso anche magliette e pigiamini dei più piccoli. Non sono legati chimicamente alla plastica e quindi possono facilmente “migrare” e depositarsi sulla pelle, essere inalati o ingeriti. Sembra che queste sostanze agiscano come perturbatori endocrini, scombussolando l’attività ormonale. L’Unione europea ha classificato due tipi di ftalati (il Deph e il Dpb) come “tossici per la riproduzione” perché dai test condotti su animali emerge che riducono la fertilità maschile. In tutti gli articoli destinati all’infanzia, indumenti compresi, i residui non devono superare lo 0,001%.
Clorofenoli Pcp, Tpc e relativi sali. Composti biocidi utilizzabili come antimicrobici e antimuffa prima dell’immagazzinaggio e del trasporto; vengono anche impiegati come conservanti per appretti e detergenti nonché come componenti di paste per la stampa dei tessuti. Secondo le norme europee possono essere presenti solo in tracce limitate sul prodotto finito.
Antiparassitari. Potrebbero esserci tracce soprattutto sui capi in fibre naturali. Non sono, come molti credono, i residui della enorme quantità di pesticidi usati nella coltivazione del cotone (quelli restano nell’ambiente, ma si perdono nella lavorazione dei tessuti). Derivano dalle dosi massicce usate per “sanificare” i container che scorrazzano i capi di abbigliamento da una parte all’altra del globo.
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