Terra, mobilità e lavoro: non solo “caporali”

I diritti dei lavoratori migranti e la necessità di un diverso sguardo, che restituisca loro dignità, in una dimensione euromediterranea. In vista della terza edizione di «Fuori dal ghetto Rosarno Film Festival», ne parliamo con Francesco Piobbichi

«I braccianti pugliesi di Di Vittorio vincevano le loro lotte perché erano riconosciuti come lavoratori, come comunità: questo dobbiamo fare, ridare dignità e libertà. Molti progetti legano lavoro e accoglienza, ma chiunque ha diritto di essere accolto dignitosamente. Perché gli imprenditori sono liberi di spostare le imprese e i lavoratori devono morire in mezzo al mare?».

Parliamo con Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope (progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia) prima a Lampedusa e oggi a Rosarno, in vista della terza edizione  del festival promosso da MH con Rete Comunità Solidali, Sos Rosarno, e, quest’anno, anche Sea Watch.

Da questa edizione il festival si chiama «Fuori dal ghetto Rosarno Film Festival», per andare oltre Rosarno: spiega Piobbichi, «il festival si è connotato fin dall’inizio come tentativo di cambiare lo sguardo sul lavoro e l’emigrazione in un territorio complesso come la Piana di Gioia Tauro, ricco di conflitti e politiche di razzializzazione. L’obiettivo era provare a dire che il problema non è solo che i lavoratori migranti non hanno voce, ma il nostro sguardo: volevamo che non fossero più solo comparse, ma protagonisti. Abbiamo lavorato da subito su questo, non senza difficoltà, inserendo nella giuria lavoratori braccianti e giovani attivisti locali. Già dallo scorso anno abbiamo coinvolto le scuole, che hanno visto i film e poi fatto parte della giuria con una loro delegazione».

Nella prima edizione del festival il tema era il lavoro, nella seconda la terra, in tutti i suoi aspetti: «Quest’anno cercheremo di coniugare il tema della libertà di movimento e dell’uscita dallo sfruttamento: fino a quando le politiche delle frontiere toglieranno dignità ai lavoratori, avremo situazioni come quella di Satnam Singh, cioè di braccianti abbandonati mutilati per strada come se fossero oggetti. In questo c’è la coincidenza tra le politiche della frontiera e la retorica che parla dell’utilità delle persone quando ci servono, e di “carichi residuali” quando non ci servono più. Un utilitarismo che toglie protagonismo e libertà di movimento ai braccianti stranieri: una volta che hai tolto a queste persone la dignità, hai tolto loro il potere di difendersi dallo sfruttamento».

Il festival toccherà in qualche modo i nodi di due leggi che determinano la condizione di sfruttamento nel nostro paese: la “Bossi-Fini” e le leggi sul mercato del lavoro, che hanno indebolito enormemente i lavoratori, anche dotati di contratto. Continua Piobbichi: «Il tema è molto ampio, non è semplicemente quello del lavoro nero e del caporalato, figura spesso rievocata, ma che come lo scafista, distoglie dal problema a monte: qual è la struttura sociale ed economica che fa sì che queste figure siano così utili alle imprese? Spesso si parla di caporali per non dare la responsabilità a chi sfrutta questi lavoratori…».

Un’ottica diversa, che rende i lavoratori protagonisti e crea vera accoglienza, passa anche dalla convivialità, racconta Piobbichi: «Quest’estate abbiamo portato a Lampedusa i film e alcuni protagonisti: una sorta di ritorno, per loro, che dopo il deserto e il mare erano approdati lì, e oggi ci tornano come lavoratori. Vorremmo proseguire in tutta Italia, per ridare una soggettività a questi lavoratori, che si raccontano, anche attraverso la loro cucina. Vivendo momenti di convivialità (avete presente il bel film di Ken Loach, The Old Oak?) proviamo a diffondere il nostro esempio, per fare in modo che nascano tante altre strutture come Dambe So. La politica dei ghetti si può spezzare solo portando i lavoratori al centro del paese».

A proposito di Dambe So, l’ostello sociale aperto a Rosarno nel 2022, che oggi conta 15 appartamenti, Piobbichi ci racconta un episodio significativo: «Qualche giorno fa stavo prendendo il tè offerto dai braccianti al ritorno dal lavoro, come d’abitudine; uno di loro ha ricevuto una telefonata, e ha detto “Vieni tu a casa mia”, intendendo Dambe So. Un segno importante, testimonia che i lavoratori la sentono come una cosa loro: non è più la “nostra” struttura. Questo è favorito dal fatto che contribuiscono alle spese, abbiamo lavorato molto sull’auto-organizzazione, costruendo insieme le regole di convivenza (e non è sempre semplice). Questo ha permesso di crescere molto, da poche unità alle 60 che prevediamo per quest’inverno. Il tutto a un costo irrisorio, mentre a poca distanza da noi, a Taurianova, è stato appena aperto un centro di accoglienza con i container dello Stato, la cui sola messa in posa è costata 2.700.000 euro, e per un errore nel progetto dai 90 posti previsti si è arrivati a 40 effettivi. Con quella cifra avremmo aperto almeno 10 Dambe So… Penso sia arrivato il momento di non fare più tanti sconti alla politica: il problema non è semplicemente un mercato immobiliare difficile per i braccianti, ma una politica della razzializzazione che non esce dalla logica dell’emergenza, costosissima. Anche attraverso il festival vogliamo denunciare questa situazione, e rilanciare la nostra campagna che chiede di tassare la grande distribuzione per un centesimo al chilo sui prodotti agrumicoli, per costruire un fondo di accoglienza che permetta di fornire accoglienza e trasporti dignitosi non solo per i braccianti ma per tutti».

L’ostello ha anche una finalità di accoglienza turistica: qual è la risposta finora?

«Positiva, per molti aspetti, anche se quest’anno abbiamo “solo” due appartamenti liberi, gli altri sono impegnati. Le persone che vengono qua cambiano lo sguardo: quasi sempre sono turisti “solidali”, ma arrivano anche persone che non conoscono l’esperienza e rimangono colpiti, soprattutto dalla distanza da un certo tipo di narrazione sull’accoglienza , influenzata dallo sguardo razzista di una politica legata all’emergenza, alla speculazione, a una visione che passivizza e infantilizza i lavoratori braccianti (chiamandoli sempre “ragazzi”, per esempio). Dambe So è un luogo che ha reinsediato socialmente un territorio, riaprendo un ostello chiuso, pur con le difficoltà legate al coinvolgimento della comunità».

Anche il passaparola dei turisti nutre la ricca rete di sostegno dell’acquisto solidale dei prodotti con SOS Rosarno, che coinvolge tante chiese e realtà in Italia e all’estero: un circolo virtuoso che mette al centro il mutuo aiuto…

«Questo è un altro grande terreno, non ancora indagato, che meriterebbe una riflessione: non possiamo andare avanti con la logica dei bandi, se finiscono i fondi statali dobbiamo cominciare a ragionare su come costruire un welfare auto-organizzato con pratiche di mutuo aiuto tra le campagne e le città, nell’ottica di una ricostruzione della dimensione eco-sociale dei territori, in particolare gli Appennini. Per esempio stiamo avviando un progetto che, insieme ad altre realtà e al Comune di Camini, permetterà di aprire due cooperative, una turistica e una casearia, coinvolgendo giovani calabresi e migranti».

Una parola chiave è “rete”, indispensabile nei progetti di cui abbiamo parlato, ma anche al centro del festival di quest’anno, dove si parla di “rete euromediterranea”: che cosa s’intende?

«L’idea alla base è che nello spazio euromediterraneo i lavoratori soprattutto migranti sono il motore dell’economia, non solo agricola, con livelli di sfruttamento altissimi, sia nella sponda nord, sia in quella a sud: Libia, Tunisia, Marocco, Libano, Turchia…. in Libia ci sono politiche schiavistiche vere e proprie: molti mi hanno raccontato di essere stati sequestrati e di avere dovuto lavorare per mesi per riscattarsi…

L’idea è unire il tema della terra, della mobilità e del lavoro, che in genere sono tenuti separati. Gli imprenditori si lamentano della mancanza di lavoratori, ma al tempo stesso appoggiano politiche di sfruttamento, che rendono i lavoratori migranti estremamente deboli dal punto di vista dei diritti.

Perché ragionare su una rete euromediterranea? Perché vuol dire ragionare sull’economia, sul fatto che quei prodotti a basso prezzo che arrivano da paesi come Tunisia e Marocco, spesso sono frutto di uno sfruttamento peggiore che da noi: anche su questo bisognerebbe cominciare a costruire un ragionamento più complesso…

È importante che una ong come Sea Watch, che si occupa di salvataggi in mare, abbia cominciato a lavorare insieme a noi sul tema della libertà di movimento, legandola al tema del lavoro in un’ottica euromediterranea… finora non lo ha fatto praticamente nessuno e invece ci sarebbe bisogno di farlo, penso anche ai sindacati. È inaccettabile che nel mondo viaggino liberamente solo i ricchi, i soldi e le merci…».

https://riforma.it/2024/08/27/terra-mobilita-e-lavoro-non-solo-caporali/


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