Sudan: stupri di massa da parte dell’esercito in Darfur

1200px-cosv_-_darfur_2008_-_women_in_daily_lifeI dati forniti da un recente rapporto di Human Right Watch.

Le forze armate sudanesi hanno violentato più di 200 donne e ragazze in un attacco organizzato a Tabit, città del nord Darfur nell’ottobre 2014. È quanto si apprende dal rapporto «Stupri di massa in Darfur: attacchi dell’esercito sudanese contro i civili a Tabit», pubblicato l’11 febbraio scorso da Human Rights Watch che richiama le Nazioni Unite (Onu) e l’Unione africana (Ua) ad adottare misure urgenti per proteggere i civili da ulteriori abusi.

Il rapporto di 48 pagine documenta gli attacchi dell’esercito sudanese in cui almeno 221 donne e ragazze sono state violentate a Tabit per oltre 36 ore a partire dal 30 ottobre 2014. Gli stupri di massa, essendo parte di un sistematico attacco contro la popolazione civile, sono da considerarsi crimini contro l’umanità.

«L’attacco deliberato a Tabit e gli stupri di massa di donne e ragazze della città sono nuovi esempi delle atrocità compiuti in Darfur», ha detto Daniel Bekele, direttore di Human Rights Watch – Africa. «Il governo sudanese dovrebbe immediatamente consentire ai peacekeeper e agli ispettori internazionali di accedere a Tabit». Le accuse di stupro di massa sono emerse in un rapporto del 2 novembre scorso diffuso da Radio Dabanga, una stazione con sede in Olanda. Il Sudan ha smentito la notizia e ha rifiutato l’accesso alla città ai peacekeeper. Una settimana dopo il governo locale ha consentito alle forze di pace un breve accesso, ma le forze di sicurezza hanno impedito loro di svolgere un’indagine credibile.

Nel novembre e dicembre 2014, Human Rights Watch ha parlato a telefono con oltre 50 residenti ed ex residenti di Tabit; tra gli intervistati vi sono: attivisti locali per i diritti umani, funzionari di governo, e il personale della missione mista Ua-Onu nel Darfur (UNAMID).

Nonostante la mancanza di accesso, Human Rights Watch ha documentato 27 casi di stupro, e ha ottenuto informazioni attendibili relativamente ad ulteriori 194 casi. Secondo i dati raccolti, le Forze armate sudanesi hanno effettuato tre operazioni militari distinte durante le quali i soldati sono andati di casa in casa, hanno depredato i beni, hanno picchiato e arrestato gli uomini, e hanno violentato donne e ragazze all’interno delle loro case. Due disertori dell’esercito hanno detto a Human Rights Watch che gli ufficiali superiori avevano ordinato loro di «stuprare le donne».

Il governo sudanese ha impedito agli osservatori delle Nazioni Unite di entrare in città per evitare che le vittime e i testimoni condividessero informazioni sui crimini. Inoltre diverse vittime e testimoni hanno riferito che i funzionari del governo hanno minacciato di imprigionare o uccidere chiunque parlasse degli attacchi.

Nel gennaio 2015, il gruppo di esperti dell’Onu in Sudan ha riferito che oltre 3.000 villaggi sono stati bruciati in Darfur nel 2014. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha riferito che quasi mezzo milione di persone è stato sfollato nel 2014, e 70.000 nelle prime tre settimane del 2015. Secondo Human Rights Watch la violenza sessuale contro i civili sarebbe stata compiuta dalle forze sudanesi non solo a Tabit ma anche altrove in Sudan.

Human Right Watch chiede che l’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i diritti umani conduca un’inchiesta sulle presunte violazioni avvenute a Tabit, e che l’Ua sostenga questo sforzo fornendo ricercatori esperti in crimini sessuali e di genere. «Il Sudan ha fatto tutto il possibile per coprire i crimini orribili commessi dai suoi soldati in Tabit, ma i sopravvissuti hanno coraggiosamente scelto di parlare», ha detto Bekele. «Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’Unione africana dovrebbero esigere che il Sudan fermi questi attacchi, agisca urgentemente per proteggere i residenti di Tabit, e conduca un’indagine credibile».

Marta D’Auria

Fonte: HRW / Riforma.it/

Copertina:” COSV – Darfur 2008 – Women in daily life” di COSV. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons


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