Sei anni fa si sperava che con l’indipendenza tutto sarebbe andato meglio nel paese dell’Africa orientale. Adesso all’ordine del giorno sono soprattutto gli aiuti d’emergenza.

(Christa Amstutz) A luglio del 2011 c’erano grandi speranze: dopo oltre vent’anni di guerra il Sud Sudan cristiano festeggiava la propria indipendenza dal Nord musulmano. Tuttavia la situazione non è migliorata. Dal 2013 una brutale guerra civile provoca fame, sofferenza e morte tra la popolazione e il giovane Stato è sull’orlo della bancarotta. Incendi, massacri e bombardamenti hanno provocato la fuga di almeno tre milioni di persone in altre zone del Sud Sudan o in paesi confinanti. Metà della popolazione dipende dagli aiuti alimentari e in molte regioni c’è una grave carestia.

Città assediata
All’inizio di marzo Valentin Prélaz si è recato nella capitale Giuba e nella città assediata di Yei nel sud del paese per conto dell’Aiuto delle Chiese evangeliche svizzere (HEKS). Sono 100.000 le persone intrappolate a Yei: popolazione locale non ancora fuggita o cacciata via da quando l’esercito governativo ha iniziato l’occupazione e profughi dalle zone circostanti che volevano mettersi al sicuro da violenza e saccheggi. L’esercito controlla la città e le strade principali, mentre diversi gruppi di ribelli la accerchiano. L’unico modo per entrare e uscire in sicurezza è in aereo. Di tanto in tanto parte un autobus per Giuba, ma il viaggio è estremamente rischioso.

“Per molto tempo Yei era considerato uno dei luoghi ancora pacifici del paese tormentato dalla guerra civile”, afferma il responsabile dei programmi HEKS per il Sud Sudan. L’organizzazione umanitaria aveva diversi progetti di sviluppo in corso nella regione, tenendo un ufficio a Yei. Tuttavia l’estate scorsa le violenze sono arrivate anche lì, l’ufficio è stato chiuso, il personale sfollato in Uganda e i progetti sospesi.

Situazione confusa
Adesso HEKS torna sul posto per portare aiuti d’emergenza insieme con l’organizzazione svizzera per l’infanzia Terre des hommes e i precedenti partner locali che sono ancora lì. L’obiettivo è quello, tra l’altro, di riparare le pompe per acqua distrutte, distribuire set per l’igiene e munire di sementi e attrezzi contadine e contadini che non possono più raggiungere i propri campi, di modo che possano allestire degli orti in città. Inoltre vengono impiegati “braccianti” per ripristinare le strade all’interno della zona di sicurezza, affinché le famiglie possano guadagnarsi da vivere.

“La situazione è confusa e ciò rende difficile il nostro intervento”, afferma Prélaz. Le organizzazioni umanitarie devono evitare di farsi strumentalizzare. HEKS e Terre des hommes avrebbero voluto portare aiuti anche ai ribelli e ai numerosi civili nei pressi di Yei, ma al momento ciò non è possibile.

Élite corrotte
“Sono migliaia le persone là fuori prive di aiuti umanitari”, dice Marina Peter. Nella città non entra più nessuno. Consulente dell’organizzazione umanitaria tedesca Brot für die Welt, anche lei è stata a Yei. Dal punto di vista della sicurezza la situazione nella città è leggermente migliorata, ma le uccisioni continuano. “La brutalità è aumentata in tutto il paese”, riferisce.

All’inizio la guerra civile vedeva contrapposti l’esercito governativo del presidente Salva Kiir e le truppe ribelli dell’ex vicepresidente Riek Machar. Il primo appartiene al gruppo etnico dinka, il secondo a quello nuer. Nel paese sono tuttavia presenti molte altre etnie e ormai i protagonisti del conflitto sono molti e divisi e le alleanze mutano. Da un lato c’è l’esercito di Kiir con le sue milizie dedite al saccheggio, dall’altro gruppi di ribelli organizzati su base etnica, ma anche milizie di cittadini che vogliono semplicemente difendere i propri villaggi. “All’origine del conflitto non ci sono questioni etniche”, afferma Peter. Nella precedente guerra con il Nord musulmano le élite assetate di potere avevano usato nei confronti della gente comune la carta religiosa, adesso ricorrono a quella etnica.

Un piano di pace
Nemmeno le Chiese sono immuni da guasti etnici. Il Consiglio delle Chiese del Sud Sudan, per esempio, ha vissuto una grande crisi, poiché in certe sue Chiese membro c’erano predicatori che incitavano all’odio. “Ciononostante la Chiesa resta l’unica forza degna di fiducia nel paese”, replica Peter. “Nel frattempo il Consiglio delle Chiese è stato completamente ristrutturato e adesso vanta un’ottima leadership”, riferisce Karin Augustat, di Mission 21. L’organizzazione basilese è già da tempo attiva nell’opera di pace e di riconciliazione in Sud Sudan attraverso la Chiesa presbiteriana sua partner. Il presidente della Chiesa è da poco anche moderatore del Consiglio delle Chiese. Adesso grandi progetti attendono il Consiglio: con un ampio sostegno internazionale verrà avviato un piano di pace di vasta portata che prevede numerose iniziative a tutti i livelli della società. Karin Augustat afferma: “È una sorta di ultima speranza per il Paese” (da reformiert.; trad. it. G. M. Schmitt).

Sud Sudan tra carestia e guerra civile (Chiese in Diretta, RSI Rete Uno)

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