Individuato in Inghilterra il caso archeologico più documentato di crocifissione, la pena crudele applicata dai Romani, divenuta il simbolo più diffuso del cristianesimo.
Lo scheletro di un uomo crocifisso 1900 anni fa, con un grosso chiodo ancora conficcato in un tallone è stato trovato in una delle tombe romane scavate a Fenstanton, tra Cambridge e Huntingdon, in Inghilterra, un sito archeologico venuto alla luce durante la costruzione di un nuovo complesso residenziale. Si tratta del terzo caso di crocifissione documentato a livello archeologico nel mondo, dopo quelli di Israele e Italia. Il primo riguarda i resti trovati nella grotta sepolcrale di Gerusalemme (Giv’at ha-Mivtar, I secolo d.C.) dove, nel 1968, fu individuato un chiodo lungo 18 cm conficcato in un piede di un uomo di mezza età, in cui ancora erano presenti frammenti di ulivo, legno utilizzato per le croci. Il secondo caso, reso noto nel 2018, riguarda una sepoltura romana isolata, in provincia di Rovigo: non è stato ritrovato il chiodo, ma le lesioni ai piedi farebbero pensare a una crocifissione.
LA PROVA DEL CHIODO. L’ultimo caso inglese, pubblicato dalla rivista British Archaeology, sembra il più documentato di tutti, con il chiodo ritrovato ben fisso nell’osso del calcagno, nel piede di un individuo maschio di circa 30 anni con altre lesioni imputabili a una lunga permanenza sulla croce. La scoperta è significativa, perché nonostante di crocifissioni si parli nei Vangeli e in diversi documenti storici, non è facile trovarne tracce concrete. In genere questo tipo di pena veniva comminata a ribelli, schiavi e malfattori, che non venivano sepolti, e comunque si andava al risparmio: i chiodi venivano spesso recuperati, e oggi è difficile individuare le loro tracce sulle ossa.
Non sappiamo che reato avesse commesso l’uomo crocifisso a Fenstanton, ma la sepoltura ai margini di uno dei 5 piccoli cimiteri dell’insediamento romano, denotano che non meritasse particolari onori come gli altri defunti. L’archeologa Corinne Duhig, del Wolfson College di Cambridge, autrice dello studio assieme al collega David Ingham, project manager all’Albion Archaeology, ha dichiarato: «La fortunata combinazione di una buona conservazione e del chiodo rimasto nell’osso ci restituiscono un reperto rarissimo, mentre tanti altri passano inosservati. A dimostrazione che anche gli abitanti di questo piccolo insediamento ai margini dell’impero non potevano evitare la punizione più barbara di Roma».
TORTURA DI STATO. I Romani appresero dai Cartaginesi la pratica della crocifissione, e la utilizzarono per mille anni come pena per infliggere il massimo del dolore, tanto che Cicerone la definì “il supplizio più crudele e più tetro”. L’abolì l’imperatore cristianizzato Costantino (IV secolo). Nel libro Diritto Romano (Mondadori 2005) la storica Eva Cantarella mostra come la pratica della crocifissione fosse codificata giuridicamente. Il condannato doveva essere prima flagellato e portare a spalla la croce fino al luogo dell’esecuzione. Si preferivano i chiodi ai lacci per appenderlo: venivano inchiodati i polsi, non le mani, perché queste non avrebbero retto il peso del corpo (il miracolo delle stimmate ai palmi non rispecchierebbe con precisione la pratica). Fra i casi più famosi di crocifissioni, quella di Spartaco e dei suoi uomini lungo la via Appia. E naturalmente di Gesù, la più ricordata, anche se qualcuno avanza dubbi.
CROCE CONTESTATA. Per i testimoni di Geova, Gesù morì legato a un palo, non sulla croce: nel Nuovo Testamento si usò la parola greca σταυρός (stauròs) con il significato di “palo di tortura”. Luca impiegò un sinonimo, ξύλον (xylon), che significa “legno”. I Testimoni di Geova sostengono che con tali termini gli evangelisti designassero un singolo palo verticale.
Per i musulmani, che considerano Gesù non il figlio di Dio ma un grande profeta, fu assunto direttamente al cielo, senza patire in croce. Se si escludono le ricchissime fonti cristiane che parlano di croce, quelle indipendenti non dicono un granché. Gli scrittori romani Tacito e Svetonio, nel 116 e nel 117 d.C. citarono Gesù dicendo solo che fu giustiziato, senza spiegare come. Giuseppe Flavio, autore intorno al 75 d.C. di Antichità Giudaiche, è l’unico “indipendente” ad attestare la croce con queste parole: “Gesù fu uomo saggio se pure conviene chiamarlo uomo, infatti egli compiva opere straordinarie (…) dopo che Pilato lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo ebbero amato (…)”.
CONDANNA POLITICA. La croce è rivelatrice del tipo di reato per cui fu condannato Gesù, da Pilato, che a quanto pare “non si lavò le mani”. Nell’uso romano la croce era infatti destinata ai ribelli, non agli eretici. Come fa notare Ed Sanders nel libro Gesù la Verità Storica (Mondadori 1995), nella Palestina di allora i falsi profeti venivano lapidati. I disordini che Gesù provocò nel Tempio, la celebre cacciata dei mercanti, avevano allarmato i Romani. Secondo Sanders, Gesù finì in croce come capo di una setta sovversiva, che auspicava un regno dei cieli molto concreto, in luogo dell’Impero romano. Sulle questioni di rilevanza politica i romani non andavano per il sottile, e Pilato meno di tutti: Filone di Alessandria, filosofo ebreo (20 a.C. – 45 d.C.), denunciò con una lettera a Caligola le reiterare esecuzioni, senza processo, ordinate da Pilato, che poi infatti venne destituito.
CROCE E RESURREZIONE. Da strumento capitale e di tortura la croce divenne simbolo di speranza grazie agli Evangelisti. Due di loro, Luca e Matteo, secondo lo storico del cristianesimo Remo Cacitti, riportano una particolare credenza dei primi cristiani secondo cui già dalla croce si compì una resurrezione. In Luca (23,42-43) quando sulla croce un ladrone lo interroga, Gesù risponde: “Ti assicuro che oggi stesso sarai con me in Paradiso”. In Matteo (27,51-53): “La terra tremò le rocce si spaccarono, le tombe si aprirono e molti credenti tornarono in vita, entrarono a Gerusalemme e apparvero a molti”.
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