Leggo da un’agenzia dell’Ansa che il 44 per cento dei pensionati non raggiunge i 1000 euro di pensione al mese, il 13% si aggira intorno ai 500. Le donne, poi, in media prendono circa il 30% in meno degli uomini e di esse il 53% è sotto i 1000 euro (dati relativi al 2011). È solo un esempio della marginalità a cui è stata relegata la terza età dalla cultura contemporanea. Temuta come la fine di tutto, scacciata con cosmetici e chirurgia plastica, la vecchiaia sembra fare soltanto paura. La si esorcizza in ogni modo, perché, per essere accettati, bisogna essere dinamici e attivi, belli e scattanti. L’anziano, perciò, è meglio se resta ai margini dalla vita «normale» (fatto salvo, naturalmente, quando ci fa comodo un nonno o quando la sua pensione, se vale qualcosa, aiuta a mantenere la famiglia). Il fatto che la politica, invece, sia ancora nelle mani di una gerontocrazia prigioniera del passato non è altro che la classica eccezione che conferma la regola.
Sarebbe interessante capire come siamo arrivati a questo punto, perché nel mondo antico la percezione della vecchiaia era ben diversa. Ce lo ricorda il Siracide, un libro del II secolo a. C.: Ai bianchi capelli s’addice il giudizio, agli anziani dare il giusto consiglio. Ai vecchi s’addice la sapienza, agli uomini eminenti la riflessione e il consiglio. Corona dei vecchi è la molta esperienza, il timore del Signore è il loro vanto (Siracide, 25, 2-5). È proverbiale il rispetto tributato ai vecchi nel passato, fino a farne, però, un principio sovente paralizzante per la società stessa, perché si tendeva a vedere nei giovani solo braccia buone per la campagna o per la guerra. Assistiamo oggi alla rivincita dei giovani, allora? No. Semplicemente, per ragioni complesse che non possiamo qui affrontare, si è affermato con il tempo un nuovo stereotipo sociale, che considera negativamente la vecchiaia e tutto ciò che ce la ricorda, rincorrendo un vano mito di eterna giovinezza.
Anziché uscire dagli stereotipi, positivi o negativi che siano, la società contemporanea continua, comunque, a incasellarci in ruoli predeterminati, a omologarci in modelli preconfezionati che ci tengano al nostro posto, decidendo in anticipo quali sono i modi in cui esprimere la nostra individualità, quali sono positivi e quali negativi. Questa prassi è da sempre talmente forte che, inaspettatamente, il rischio di riproporre dei modelli inibitori della nostra libertà di espressione s’incontra anche in alcuni passi della Bibbia. A esempio, nella lettera a Tito, accanto a saggi consigli sulla gestione della propria vecchiaia troviamo anche un modello femminile avvilente: «Tu, però, insegna ciò che è conforme alla sana dottrina. Che i vecchi siano sobri, dignitosi, prudenti, sani nella fede, nella carità e nella pazienza. Anche le donne anziane abbiano un comportamento quale si addice ai santi; non siano malediche né schiave del molto vino, ma piuttosto maestre di bontà, per insegnare alle giovani ad essere sagge, ad amare i loro mariti e i loro figli, ad essere prudenti, caste, attaccate ai loro doveri domestici, buone, sottomesse ai loro mariti, perché non sia vituperata la parola del Signore» (Tito 2, 1-5). Troviamo qui una visione dei ruoli sociali che rischia di contraddire la libertà donataci nello Spirito di Dio, proprio quella di cui parla Paolo stesso a esempio in Galati 3, 28, dove annuncia con coraggio la fine degli schemi sociali tradizionali alla luce dell’evangelo. Una contraddizione che, purtroppo, tante volte le istituzioni ecclesiastiche hanno fatto in fretta a sfruttare, per ingabbiare il potere trasformante e liberante dello Spirito. Proprio qui sta il punto che vorrei mettere in evidenza, riflettendo sul ruolo assai marginale attribuito agli anziani. La Bibbia ci esorta ad andare al di là delle gabbie in cui la società vuole imprigionarci: nella visione di Gioele, a ricevere visioni è tutto il popolo, senza differenze di età, sesso o condizione sociale; nel vangelo di Giovanni, Gesù esorta proprio un anziano a essere pronto a nascere di nuovo per divenire figlio di Dio. È un modo per dire che nella chiesa non possono valere gli stereotipi umani che ci imprigionano in ambiti determinati da altri: povero o ricco, femmina o maschio, autoctono o straniero, giovane o vecchio. Alla fine, sempre gabbie sono. Davanti a Dio siamo suoi figli e figlie, creature chiamate a essere libere, valorizzando i doni che hanno ricevuto, ciascuno e ciascuna nella ricchezza della propria individualità e del momento della vita che sta vivendo.
La Parola di Dio, dunque, ci annuncia la liberazione, anche e soprattutto quando il nostro ruolo sociale potrebbe diventare una comoda scusa per venir meno alla vocazione che riceviamo dal Signore, cioè proclamare e vivere la parola d’amore dell’evangelo. Chiunque io sia, la chiamata è la medesima e la mia condizione umana non può valere come impedimento. C’è sempre un modo per esprimere e vivere questa vocazione, se non mi rassegno alla mia gabbia e non la uso come rifugio di comodo per sfuggire a ciò che sono chiamato a essere in Cristo. Neppure la vecchiaia può essere usata come un alibi, ma deve diventare un’opportunità. Questo lo dobbiamo affermare a chiare lettere tutte le volte che definiamo «vecchie» molte delle nostre comunità, soprattutto anagraficamente. Quanti piccoli gruppi vengono malinconicamente considerati il residuo di un antico fervore, di cui non rimane che una manciata di timidi anziani? Quante volte si lamenta l’assenza dei giovani tra le nostre panche, come se questa fosse una buona scusa per cadere nella rassegnazione e prepararsi alla lenta scomparsa della comunità? Quante volte, insomma, ci adeguiamo allo stereotipo negativo del nostro tempo nei confronti della terza età, accettando di diventare davvero «vecchi, stanchi e marginali»?
Il rinnovamento della Parola viene offerto tanto ai giovani quanto agli anziani: ogni età ha le sue debolezze e i suoi punti di forza, e lo Spirito ci permette di porre questi ultimi al servizio dell’evangelo. A Nicodemo, forse avanti negli anni, Gesù annuncia la nuova nascita nello Spirito Santo. La stessa parola viene rivolta anche ai nostri anziani, uomini e donne, «vecchi» membri di chiesa con una lunga storia di fede alle spalle. Dobbiamo abbandonare ogni rassegnazione e, se tra le panche sono rimasti solamente pochi signori o signore con i capelli grigi, vorrà dire che spetterà a loro di lasciarsi rinnovare ogni giorno dallo Spirito e ricominciare a evangelizzare, forse senza più le energie dei vent’anni, ma con la saggezza degli «anta». Il nostro compito è quello di cambiare la mentalità nei confronti della vecchiaia non solo nel mondo (una lotta sociale che vede impegnati molti nella nostra diaconia), ma anche nelle nostre stesse chiese. Se pure i giovani dovessero tacere (e, per fortuna, non è sempre così!), saranno allora le bocche degli anziani ad annunciare l’Evangelo con energia e convinzione: «Ora, nella canuta vecchiaia, o Dio, non mi abbandonare, fino a che io annunzi la potenza del tuo braccio a ogni generazione che verrà, e la tua giustizia, o Dio, fino alle stelle» (Salmo 71, 18).
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