Le speculazioni sul movente economico dei conflitti sono un classico del complottismo, e vanno perciò maneggiate con cura. Tuttavia, un’inchiesta del canale francese France 2, del Febbraio di quest’anno, ha reso pubbliche informazioni molto convincenti sul ruolo degli interessi energetici nel capitolo siriano della Primavera araba. Eccone il resoconto, punto per punto.
L’antefatto. «Studiando il conflitto siriano, si può riscontrare una corrispondenza fra alleanze e dinamiche economiche». Parole di David Amsellem, ricercatore dell’Institut Français de Géopolitique, centro transalpino specializzato in analisi politico-strategiche. Partendo da questo genere di considerazioni, è stato realizzato un servizio televisivo, prodotto dal secondo canale della televisione pubblica francese, che ha provocato un certo rumore oltre confine, rimbalzando sui social di numerosi spettatori, anche nei paesi arabi di matrice francofona.
L’origine delle tensioni. È il 2009, e il presidente siriano Bashar al-Assad, a un forum turco, cui partecipano politici, imprenditori e diplomatici, annuncia la “politica dei quattro mari”: un progetto che intende fare della Siria lo snodo privilegiato dei gasdotti che portano il metano in Europa. Damasco non controlla riserve di gas naturale pari a quelle dei potenti vicini, ma gode di una posizione geografica vantaggiosa, che la rende uno sbocco ideale verso Cipro e la Grecia: le porte del Vecchio Continente. Queste le dichiarazioni del dittatore: «La Siria si affaccerà sul mondo dell’energia. Siamo il punto d’incontro tra Caspio, Golfo, Mediterraneo e Mar Morto. E quando fungiamo da connessione a questi quattro mari, non siamo solo importanti in Medioriente, diventiamo il centro del mondo». La strategia è definita e parte la corsa per assicurarsi i diritti di passaggio.
I viaggi di Assad. Il presidente siriano moltiplica così i propri incontri diplomatici coi principali attori della regione: sauditi, turchi, iraniani, iracheni, qatarioti. Il terreno è minato, perché l’area è già attraversata da un conflitto strisciante, che oppone due blocchi d’influenza: quello sunnita, che fa riferimento a Riyad, Ankara e Doha – in perenne competizione fra loro -, e quello sciita, la cui leadership è in mano a Teheran. Assad, pur essendo uno storico alleato degli ayatollah iraniani, che hanno un piede anche nel vicino Libano, attraverso Herzbollah -il partito armato che controlla il sud del paese- dialoga con tutti i soggetti. Emergono due possibili soluzioni: il Qatar, sempre nel 2009, lancia la proposta di far passare il gas, proveniente dal suo enorme giacimento diNorth Dome, attraverso Arabia Saudita, Giordania e Siria, per poi proseguire in Turchia, e da lì verso il mercato europeo. Ma nello stesso periodo viene presentato un altro progetto: “L’islamic gas pipeline”, un percorso alternativo che contempla l’Iran, l’Iraq -anch’esso a maggioranza sciita- e la stessa Siria; tagliando fuori gli altri, e spostando gli equilibri energetici e finanziari del Medioriente.
La scelta fatale. Damasco, nel Luglio 2011, dopo un flirt iniziale con la Turchia, opta per la proposta iraniana, ribadendo così la storica collocazione geopolitica. La Turchia si sente lesa nei propri interessi, soprattutto economici. L’Arabia Saudita e il Qatar, competitori regionali dell’Iran, sono molto preoccupati per il rapporto diretto che potrebbe instaurarsi fra quest’ultimo e l’Occidente. A distanza di breve tempo, esplode la protesta anti-Assad: dapprima laica, in seguito sempre più connotata da venature estremistiche. È interessante segnalare, in questo senso, che il flusso dei finanziamenti dall’Arabia Saudita e dal Qatar si fa subito corposo, come esplicitamente dichiarato da fonti del Ministero del tesoro USA. Vengono foraggiate diverse sigle, spesso in aperta ostilità fra loro: ognuno scommette sul proprio cavallo. Ma l’obiettivo di abbattere il regime di Assad è comune a tutti.
La Russia. Nel 2013 Mosca e Damasco, già in ottimi rapporti, per tradizione diplomatica, firmano un contratto: una società russa ottiene la concessione per trivellare il fondale a largo del porto siriano di Latakia, l’antica Laodicea. Secondo gli esperti del settore, anche il Mediterraneo orientale cela immensi giacimenti di gas naturale, tra le acque territoriali di Grecia, Cipro, Egitto, Libano e Israele. Nel settembre 2015, nonostante le resistenze della comunità internazionale, il governo russo decide di intervenire direttamente nel conflitto siriano, inviando una flotta e delle truppe di terra.
Bilancio provvisorio. Tutti questi elementi, portano a ritenere che gli appetiti scatenati dalle rotte del gas naturale abbiano ricoperto un ruolo di primaria importanza sull’origine e sull’evoluzione della guerra in Siria. Certo, non bisogna confondere i rapporti di causa effetto: gli interessi economici non hanno determinato gli schieramenti che si fronteggiano in quell’area del mondo; tutt’al più, li hanno indirizzati e rafforzati. Tuttavia, occorre tenere in considerazione questi aspetti, se si vuol proporre una strategia seria, per porre rimedio al disastro siriano, risolvendo una tragedia umanitaria che investe, attraverso le migrazioni, anche l’Europa. «Follow the money», è l’esortazione che ricorre quando si vuol ricostruire un fenomeno criminale. Vale anche per i crimini di stato. Tutto il resto è vuota retorica.
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