“… Non chiunque dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli…”
La favola dei tre Porcellini è una delle più brillanti favole conosciute nella letteratura dell’infanzia. Raccolta nelle sue “Nursery Rhymes Nursery Tales nel 1843 dallo studioso britannico shakespeariano James Orchard Halliwell-Phillips nel 1843, essa ebbe la sua popolarità nel 1890 con lo scrittore Joseph Jacobs, che la incluse nel suo “English Fairy Tales”. Tuttavia, la favola ha avuto forse un’eco universale con la versione disneyana del 1933, “Three Little Pigs”. Quest’ultima, meno cruenta e più divertente, si può sintetizzare nel seguente modo: “ In un bosco vivevano tre porcellini. Per difendersi dalla ferocia di un lupo che abitava nei dintorni, decisero di costruire ognuno la propria casetta. Il più volenteroso costruì la sua casetta con mattoni e cemento, mentre gli altri due, più restii alla fatica, decisero di costruire la propria casetta, il primo con la paglia e il secondo con il legno. Un giorno il lupo perlustrò la zona del bosco nella quale i porcellini avevano costruito la loro casetta, notando le strane abitazioni e chi li abitava. Affamato, si avvicina alla prima casetta costruita con la paglia e, dopo avere profondamente inspirato, soffiò fortemente sulla fragile costruzione, scoperchiandone il tetto. Il porcellino, impaurito, scappò via, rifugiandosi nella seconda casetta di legno, abitata dal suo fratellino, credendo di essere fuggito dalle grinfie del lupo affamato. Il lupo non demorse. Dopo una breve corsa raggiunse la seconda casetta di legno e iniziò a soffiare con tutto il fiato che aveva nei polmoni. La porta cedette. I due porcellini, impauriti corsero a perdifiato incalzati dal lupo inferocito, rifugiandosi nella casa di mattoni costruita con fatica e pazienza dal fratello maggiore tra gli sberleffi dei suoi fratellini. Il lupo innervosito sia perché non era riuscito a catturare i due porcellini sia perché la casa di mattoni ha una struttura solida e la porta è ben fissata con robusti cardini, cercò di entrare per il camino ignaro di quello che lo aspettava. Infatti, il porcellino saggio, intuendo le malevoli intenzioni del lupo, accese della legna nel camino sulla quale precipitò ignaro il lupo. Fortemente ustionato, il lupo corse via presso il ruscello più vicino per alleviare il suo fondo schiena bruciacchiato…”.
Favola divertente, contenente il tema della crescita e della maturazione attraverso l’esperienza, essa richiama alla memoria dei cristiani la parabola evangelica di Gesù della costruzione delle due case, che risulta essere un severo monito per i seguaci di Gesù a essere facitori degli insegnamenti etici che il nostro Signore ha insegnato. Essa è preceduta da un breve testo (21-23) che introduce efficacemente l’ammonimento di Gesù. “… Non chi dice Signore, Signore entrerà nel Regno dei Cieli ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei Cieli”. Interessante è quello che immediatamente segue: “Molti mi diranno in quel giorno, “Signore, Signore, non abbiamo profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demoni e fatto in nome tuo molte opere potenti”. Allora dichiarerò loro: “Io non vi ho mai conosciuto: allontanatevi via da me, malfattori”.
Esso richiama esplicitamente la condanna definitiva di chi non ha portato frutto alla fine della storia umana. E senz’altro Gesù non si riferisce soltanto ai falsi profeti, ma anche e soprattutto a tutte le professioni spurie dei suoi discepoli. Qual’è il criterio attraverso cui Gesù permette l’ingresso nel Regno dei Cieli? Gesù fortemente sottolinea la richiesta dell’ubbidienza dei suoi discepoli. Egli li chiama a un incondizionato impegno della mente, della volontà e della vita nella realizzazione dei suoi insegnamenti etici, mettendoli in guardia da due pericolose espressioni religiose, da una mera e statica professione di fede e da una pura conoscenza intellettuale della fede cristiana. Ambedue sono tristemente popolari all’interno delle chiese, servendo come abili mimetizzazioni per disobbedire. La sequela di Gesù non può essere sostituita maldestramente da surrogati pseudo cristiani come l’impegno puramente intellettuale dell’esperienza cristiana o l’adesione puramente verbale al dettato evangelico. Gesù fortemente enfatizza che nel giorno del definitivo responso divino la vita e la morte sarà determinata dalla risposta morale di chi si definisce cristiano all’insegnamento etico di Gesù nella vita terrena.
Se analizziamo la prima, per così dire fascia di credenti che Gesù sottolinea, essa vive solo e soltanto di affermazioni dogmatiche e rimane attaccata solo alle grandi confessioni di fede che parlano di quello che Gesù ha fatto o detto. Intendiamoci. La confessione di fede è estremamente importante e le conquiste dogmatiche realizzate nei primi quattro secoli dell’era cristiana sono decisamente rilevanti per una corretta comprensione del pensiero biblico. Tuttavia, un tale impegno puramente verbale non basta per poter dare seria credibilità alla propria fede. Dire “Gesù è il mio Signore”, intendendo con tale affermazione che Gesù è di natura divina e la parola “Signore” è un titolo divino, questa è un’affermazione squisitamente ortodossa. E tale affermazione non è per niente fredda o formale, ma esprime l’entusiasmo del credente, l’espressione di chi ha una fede zelante e devota. Ed è persino una confessione pubblica. Il cristiano è un uomo-donna che confessa pubblicamente la sua fede con fervore e devozione. Di più, questa confessione di fede ha qualcosa di spettacolare, agisce dal punto di vista cultuale come la profezia (ossia la predicazione), come l’esercizio dell’esorcismo e quello della spettacolarizzazione dei miracoli (ahimè com’è attuale quest’aspra critica di Gesù!). Sarà questa poliedrico, formale attivismo che Gesù non riconoscerà alla fine dei tempi, o meglio, alla fine della storia umana. Questo simpatico e attivista gruppo di “discepoli” rivendicherà invano, stando al Trono del Giudizio, questa triplice attività di predicazione, di esorcismo e di opere potenti, cose che d’altra parte sono realizzate anche dai falsi profeti e dai falsi Cristi (cfr. Mt.24:24). Noi vediamo che questi cristiani chiamano Gesù con pia devozione, ortodossia e persino con espansivo entusiasmo, sia nella privata culturalità che nel pubblico ministerio. Ma tutto quello che hanno detto e hanno fatto non è riconosciuto da Gesù nel Giorno della Verifica decisiva e tassativa della vita e dell’opere di ogni uomo. Anzi Gesù affermerà solennemente che non li ha mai conosciuti. Ciò significa fin dall’inizio della loro avventura religioso-cristiana. E’ tragico costatare che questo gruppo di attivisti cristiani, sebbene abbiano usato liberamente il nome di Gesù, essi in realtà non lo conoscono. Qual’è la ragione della loro esclusione dal Regno? Questo gruppo di cristiani era animato da una fede verbale, non morale. Essi chiacchieravano intorno alla fede, ma non la vivevano. La loro confessione era solo nominale, ma non facevano la volontà del Padre che è nei Cieli. Luca, riportando questi versi, accentua maggiormente il disappunto di Gesù: “Perché mi chiamate Signore, Signore e non fate quello che vi dico?” (Lc.6:46). Ecco, il fulcro del forte monito di Gesù è il seguente: alla confessione verbale segue l’azione etica (cfr. Giac.2:14-26). Essi possono rivendicare il fatto che abbiano operato (cfr.22). Tuttavia, tali opere religiose (la predicazione, l’esorcismo e probabilmente i miracoli) non sono sufficienti per essere graditi al Signore, perché la loro fede era disimpegnata dal punto di vista etico. A tal proposito Giovanni nella sua prima lettera lo afferma chiaramente: “Chi dice: “Io l’ho conosciuto” e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in Lui, ma chi osserva la sua parola, in Lui l’amore di Dio è veramente completo” (1°Giov. 2:5). E’ sconvolgente l’affermazione di Gesù, essa mette in crisi il credente; o perlomeno, lo induce a una seria riflessione sull’essenza della sua fede. Ovvero, chi rivendica che ha fatto una professione di fede e magari è stato battezzato, chi nomina il suo nome solennemente nel pubblico culto, chi esplicitamente sostiene il credo Niceno-costantinopolitano, quello efesino e persino quello calcedonese, chi canta con emozione inni di grande spessore spirituale nei culti domenicali e formula anche profonde preghiere nelle pubbliche assemblee, esercitando anche importanti incarichi ministeriali e manca di sincera e onesta obbedienza fattiva nell’etica, l’affermazione del Signore è categorica: “ …Io non vi ho mai riconosciuti: allontanatevi da me, malfattori”.
Per rendere ancora più comprensibile il suo severo ammonimento circa l’inutilità della confessione verbale e delle azioni religiose se esse non sono accompagnate, corroborate dall’impegno etico, Gesù espone al suo uditorio (i discepoli e la folla), una plastica, eloquente parabola, le due case costruite una sulla roccia e l’altra sulla sabbia. Gesù non scinde mai il binomio lessicale del dire (udire) e dell’agire. Ecco che Gesù con sapiente arte narrativa dipinge con vivaci espressioni verbali la condotta del discepolo saggio, il quale ascolta attentamente l’insegnamento di Gesù, “mangia il rotolo della legge”, ossia assimila e conserva la legge etica del Signore, e la incarna nella quotidianità del vissuto quotidiano e lo stolto, il quale, al contrario, ascolta soltanto, ma non agisce secondo il dettato etico del Signore attraverso la popolare parabole dei due costruttori della propria casa. Tuttavia, per un osservatore disattento, la differenza tra i due tipi di cristiani non è percepibile. L’apparenza esteriore delle due case è la stessa. Solo quando la tempesta infuria e si abbatte violentemente sulle due case (il continuo martellare della pioggia, i torrenti che straripano riversandosi sulle fondamenta, il vento che soffia sulle mura) la differenza della costruzione delle due case è rivelata: la casa costruita sulla roccia regge alle forte intemperie naturali; al contrario, quella costruita sulla sabbia crolla rovinosamente. Uscendo fuori dalla metafora, solo le avversità quotidiane, le continue tentazioni cui è sottoposto il cristiano, le stesse persecuzioni (che possono anche essere morali), le malattie e la morte sono esperienze forti che il cristiano esperimenta, vagliando la veridicità della fede che professa. Solo la fede in Gesù porta all’obbedienza, non una semplice adesione intellettuale o emotiva a un sistema dottrinale per quanto ortodosso esso possa essere. Solo chi crede obbedisce e solo chi obbedisce crede. Questi due gruppi di cristiani stanno insieme nella stessa comunità visibile. Entrambi pregano, attendono ai culti domenicali, leggono la Bibbia e diversi testi di edificazione cristiana. E’ difficile carpire la sostanziale differenza fra i due tipi di Cristiani perché il fondamento è nascosto alla vista. La questione sostanziale sta nel fatto che i cristiani non soltanto ascoltano, ma anche agiscono ubbidendo al dettame evangelico. Solo la tempesta della crisi scopre la vera identità del cristiano, poiché la vera pietà non è veramente distinta da quella contraffatta se non quando si è di fronte alle prove. E se persino questa verifica non sarà sufficiente, i falsi cristiani saranno denudati dalla tempesta del giudizio. L’insegnamento di Gesù della sequela e del servizio indefesso è una lezione di vita cristiana che gli Apostoli non hanno mai dimenticato. Nella 1° lettera di Giovanni è fatta risaltare la pericolosità di una mera professione verbale: “…. Se noi diciamo che abbiamo comunione con Lui, mentre noi camminiamo nel buio, noi mentiamo… Colui che dice “io conosco Lui” ma disobbedisce ai suoi comandamenti è un bugiardo” (1° Giov. 1:6;2:4). Anche la lettera di Giacomo riferisce alla cristianità contemporanea dei pericoli di una conoscenza intellettuale, affermando che un’arida e petulante ortodossia non è portatrice di salvezza, ma solo una fede che si traduce in buone opere: “…. Dobbiamo essere facitori della Parola, e non soltanto uditori” (1:22-25; 2:14-20).
John Stott giustamente afferma: “Nell’applicare questo insegnamento a noi stessi, noi dobbiamo considerare che la Bibbia è un pericoloso libro da leggere, e che la Chiesa è una pericolosa società riunita. Poiché nella lettura della Bibbia noi sentiamo le parole di Cristo, e nella chiesa riunita noi diciamo di credere in Cristo. Da ciò risulta che noi apparteniamo a questa particolare società descritta da Gesù che ascoltano il suo insegnamento e lo chiamo “Signore”. La nostra appartenenza alla chiesa ci induce a una severa responsabilità di garantire che quello che noi conosciamo e quello che noi diciamo è necessariamente tradotto in una fede fattiva” (1.)
Non meno pungenti sono anche le parole di Bonhoeffer: …Qui si parla di due diversi atteggiamenti dell’uomo davanti a Dio. Colui che dice “Signore, “Signore” è l’uomo che in base al suo di sì avanza delle pretese; chi agisce è colui che opera in umile obbedienza. Il primo è colui che si giustifica con la sua confessione di fede, il secondo, colui che agisce, l’uomo obbediente che si affida alla grazia di Dio. Qui, dunque, proprio il parlare dell’uomo diviene il correlativo della sua auto giustificazione. L’agire, invece, il correlativo della grazia, di fronte alla quale l’uomo non può fare altro che obbedire e servire umilmente. Quello che dice: Signore, Signore, si è chiamato da sé a seguire Gesù, senza lo Spirito Santo, o ha fatto della chiamata un proprio diritto. Colui che fa la volontà di Lui è stato chiamato e graziato, obbedisce e segue Gesù. Egli sente la chiamata non come diritto, ma come giudizio e grazia, come volontà di Dio, alla quale vuole ubbidire. La grazia di Gesù richiede uomini che agiscono, e l’azione diviene la vera umiltà, la vera fede, la vera confessione della grazia di colui che chiamato. . “ (2)
Infine, aggiunge: “ Abbiamo sentito il Sermone sulla montagna, forse lo abbiamo anche capito. Ma chi lo ha ascoltato veramente? A questa domanda Gesù risponde alla fine. Gesù non lascia semplicemente che i suoi uditori si allontanino, facciano del suo discorso ciò che loro piace; che cerchino in esso ciò che a loro sembra utile per la loro vita, che esaminino in quale rapporto con la “realtà” stia questo insegnamento. Gesù non dà libero corso alla sua Parola, non la concede ai suoi uditori perché la usino come vogliono, perché con le loro mani di trafficanti ne abusino, ma la dà loro in modo tale che solo Lui mantiene ogni suo potere su loro. Dal punto di vista umano ci sono infinite possibilità di intendere e di interpretare il sermone sulla montagna. Gesù conosce una sola possibilità: Andare e Obbedire”… (3.)
Colui che afferma la propria fede e la professa verbalmente senza che vi sia azione etica è in pratica un non-agire. Tale parola non tradotta in azione non è una roccia su cui poggia la propria casa spirituale. Non c’è unità né comunione con Gesù. Non conosce Gesù. Forse conosce la dottrina e le professioni di fede ma non conosce Gesù. Nel momento in cui infuria la tempesta e i venti soffiano minacciosamente e i torrenti straripano invadendo la base di questa casa, essa crolla rovinosamente. La parola è ascoltata dal semplice uditore, si appropria della parola di Gesù, ma non ne fa tesoro, essa diventa un semplice oggetto di riflessione e di speculazione, ma non la traduce in azione. Questa casa crolla inesorabilmente perché non poggia sull’autorità di Gesù.
Solo chi non considera l’insegnamento etico di Gesù come un ideale etico utopico e agisce nella sequela quotidiana di Gesù costruisce la sua fede nella roccia e la roccia è Gesù. Il discepolo di Gesù rinuncia alla cultura secolare in favore di una controcultura cristiana.
(1) Stott R.W John- The message of the sermon of the Mount-Inter-Varsity Press, Leicester, England, pag. 210
(2) Bonhoeffer Dietrich- Sequela- Queriniana ed. , Bs, 1975, pag. 172
(3) Bonhoeffere Dietrich- Op. Cit.- pag. 175
Paolo Brancè | Notiziecristiane.com
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