Sei sicuro che il tuo maglione non sia frutto di lavoro forzato?

Mobilitazione di Christian Solidarity Worldwide e altre organizzazioni per i diritti umani contro i grandi marchi della moda che utilizzano il lavoro forzato di minoranze etniche nella regione uigura della Cina

Ci stiamo avvicinando al periodo delle festività natalizie, e anche se quest’anno il Natale sarà molto diverso da quello a cui siamo abituati, ci sarà il momento di scambiarsi i regali, tra i quali non mancheranno articoli di abbigliamento. Ma come sono stati realizzati quei capi che troveremo impacchettati sotto l’albero? Siamo sicuri che per essere stati realizzati non sia stata utilizzata manodopera forzata? In particolare, alcune organizzazioni per i diritti umani come Christian Solidarity Worldwide (CSW), denunciano che i vestiti che vengono acquistati nel Regno Unito sono collegati a una delle più gravi violazioni dei diritti umani nel mondo: la detenzione arbitraria di massa e il lavoro forzato di minoranze religiose ed etniche nella regione uigura della Cina.

La Coalizione per porre fine al lavoro forzato nella regione uigura stima che il 20% del cotone mondiale proviene dalla regione autonoma cinese dello Xinjiang uigura (XUAR, denominata da molti uiguri Turkestan orientale), e che un capo di cotone su cinque presente sul mercato globale dell’abbigliamento sia stato realizzato dal lavoro forzato utilizzato nelle grandi fabbriche presenti in quella zona. Con questi dati e cifre, è difficile capire quanti di noi possono aver svolto un ruolo, anche se inconsapevolmente, in questa orribile industria. Nonostante ciò, ci sono ancora azioni che i consumatori possono intraprendere per fare pressione sulla Cina e per porre fine alla difficile situazione degli uiguri, uno dei numerosi gruppi etnici prevalentemente musulmani che risiedono nella regione uigura nel nord-ovest della Cina.

In un articolo pubblicato su christiantoday.com, Ellis Heasley, funzionaria di CSW, afferma che diversi grandi marchi – tra cui Zara, Nike e Uniqlo, Adidas, Calvin Klein, H&M, Gap, Fila, Lacoste… – sono stati collegati a casi specifici di lavoro forzato della minoranza etnica uigura. Il mese scorso, molti sono stati chiamati a testimoniare davanti al Comitato Affari, Energia e Strategia Industriale del Parlamento britannico per un’inchiesta «che esplora la misura in cui le imprese del Regno Unito stanno sfruttando il lavoro forzato degli uiguri nella regione cinese dello Xinjiang». Una società che ha presentato prove per l’inchiesta è stata Inditex, la società madre di diversi noti marchi di abbigliamento, tra cui Zara. Inditex afferma di avere una politica di tolleranza zero nei confronti del lavoro forzato di qualsiasi tipo, tuttavia i ricercatori del Consorzio per i diritti dei lavoratori affermano di aver identificato legami tra Inditex e due importanti produttori cinesi che sono noti per essere complici del lavoro forzato degli uiguri.

La Coalizione per porre fine al lavoro forzato nella regione uigura ha invitato le aziende a firmare un “impegno per il marchio” che li vedrà interrompere tutte le forniture dalla regione uigura, dal cotone agli indumenti finiti, entro dodici mesi dalla firma. Finora Inditex e, per estensione Zara, non hanno firmato l’impegno anche se non dovrebbero avere problemi a farlo, considerata la loro dichiarata politica di “tolleranza zero”.

Questa settimana, CSW partecipa a una mobilitazione che mira a convincere Zara a firmare “l’impegno per il marchio” e ad impegnarsi a tagliare tutti i legami con le aziende che stanno beneficiando della crisi dei diritti umani in corso. «È chiaro – scrive Ellis Heasley – che anche la comunità internazionale nel suo insieme deve prendere posizione per prevenire queste continue atrocità nella regione uigura. Gli Stati devono fare pressione sulla Cina per porre fine alle detenzioni e al lavoro forzato, anche chiedendo un intervento internazionale indipendente nella regione. In quanto consumatori, anche noi abbiamo un ruolo da svolgere. Per le aziende che fanno affidamento sui nostri acquisti, le nostre voci contano e quale modo migliore per prendere posizione se non inviando una petizione a Zara per garantire che nessuno dei suoi prodotti sia il risultato del lavoro forzato uiguro?».

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook