Raccogliere la colletta o le contribuzioni per la cassa culto ci pone nella prospettiva dell’unità della chiesa. Siamo chiamati ad allargare il nostro sguardo e a vedere che cosa c’è oltre l’ottica individuale. È la chiesa tutta che è in gioco.
Care sorelle e cari fratelli in Cristo, mi chiedo quali siano i pensieri predominanti quando all’interno della liturgia del culto giunge il momento di raccogliere la colletta. «Quanti spicci avrò nel portafoglio? », «Ho una banconota troppo grande, non va bene! », «Ne approfitto per sgranchirmi e scambiare due parole con il mio vicino…». Capita anche a me quando seguo un culto e sento che non sto focalizzando bene il senso di ciò che faccio. Anche la contribuzione per la cassa culto rischia di fare i conti unicamente con l’idea di una sottrazione: «Quanto devo togliere dal mio stipendio quest’anno? », o di una moltiplicazione: «Quante volte potrò contribuire quest’anno?». Non voglio con questo dire che la colletta o la contribuzione sia sempre un momento poco sentito dalle chiese, penso però che ogni tanto ci sfugga il senso e l’obiettivo di ciò che facciamo.
Per chi stiamo raccogliendo la colletta o versando la nostra contribuzione?
Per chi stiamo raccogliendo la colletta o versando la nostra contribuzione? Chi è il destinatario invisibile? Qual è la posta in gioco di questo impegno che le nostre chiese prendono ogni anno? Non c’è solo la motivazione economica: autofinanziarsi per sostenere le spese della chiesa a livello nazionale e locale. C’è anche e soprattutto una visione ecclesiologica, nella misura in cui la colletta ha a che fare con la concezione stessa della chiesa. Si tratta di riconoscersi reciprocamente nella diversità a partire dalla comune appartenenza a Cristo, cioè provare a vivere l’universalità della chiesa e il suo pluralismo attraverso una relazione reciproca che ne determina l’unità. Cerchiamo di capire meglio queste affermazioni, rileggendo una delle pagine più conosciute e citate sulla colletta; i capitoli 8 e 9 della Seconda Lettera ai Corinzi. Nel nostro percorso biblico abbiamo già avuto modo di capire quanto la Seconda Corinzi sia una lettera piena di tensioni e con qualche controversia per le incomprensioni tra l’apostolo Paolo e i Corinzi. Anche il tema della colletta rischiava di suscitare polemiche poiché Paolo sembra sospettato di fare tutto unicamente per un tornaconto personale. Tuttavia, le pagine dei due capitoli citati sono tra le più belle di tutta la lettera: si respira un’aria di estrema solidarietà verso chi è nel bisogno e di pastoralità nell’intenzione di contribuire per le necessità altrui. La decisione di raccogliere una colletta tra le varie chiese nate dalla missione apostolica, e di destinarla alle chiese della Giudea, era stata presa da Pietro, Giacomo, Giovanni e Paolo dopo l’incontro di Gerusalemme (così Galati 2, 10). La colletta raccolta avrebbe significato da un lato il riconoscimento del lavoro missionario di Paolo tra i gentili, un voler dar credito alle chiese cristiane provenienti dal paganesimo; dall’altro la solidarietà con le chiese madri della Giudea, poiché «gli stranieri sono stati fatti partecipi dei loro beni spirituali» (Romani 15, 27). Si tratta dunque di stabilire un riconoscimento reciproco tra le comunità giudeo-cristiane e quelle pagano-cristiane.
Dietro questa comprensione della colletta scorgiamo la tipica ecclesiologia paolina
Dietro questa comprensione della colletta scorgiamo la tipica ecclesiologia paolina, secondo cui i credenti e le chiese si riconoscono, nella loro diversità, membra dello stesso corpo. La metafora del corpo di Cristo, usata per altro per descrivere proprio la chiesa di Corinto (1 Corinzi 12, 1-30), sottolinea da un lato l’unità del corpo, cioè della chiesa, e dall’altro la pluralità delle sue membra, ovvero la diversità dei doni offerti dallo Spirito. Emerge dunque la visione di una società umana fondata sull’Evangelo, in cui la diversità e il pluralismo sono espressione dell’unità in Cristo. Non ci stupiamo allora se Paolo insiste tanto affinché le chiese nate dalla predicazione dell’Evangelo, in Macedonia, in Acaia, in Galazia e altrove, continuino a «completare quest’opera di grazia», poiché ne va della vita stessa della chiesa. Raccogliere la colletta, o le contribuzioni per la cassa culto ci pone dunque nella prospettiva dell’unità della chiesa. Siamo chiamati ad allargare il nostro sguardo e a vedere che cosa c’è oltre l’ottica individuale. È la chiesa tutta che è in gioco, la sua testimonianza e il suo servizio nel mondo. L’utilizzo che facciamo dei fondi dell’otto per mille ci ha forse fatto svalutare in questi anni il senso della nostra contribuzione personale: con l’otto per mille la chiesa fa testimonianza e servizio, con le contribuzioni personali paga le spese interne. Una tale riduzione di prospettiva finisce per cancellare il senso del nostro impegno finanziario, generando una sfiducia e una demotivazione generale. È invece la nostra contribuzione che sostiene la predicazione e il servizio della chiesa, che rende uniti nello stesso progetto.
Il concetto di unità pluralista della chiesa stabilisce anche il principio di uguaglianza
Il concetto di unità pluralista della chiesa stabilisce anche il principio di uguaglianza dei versetti 12-15 del capitolo 8: chi ha di più aiuti chi ha di meno. Mi sembra che questo ispiri la ripartizione delle richieste contributive che la Tavola e le Commissioni esecutive distrettuali propongono alle chiese. Tale principio andrebbe bene non solo per la chiesa, ma per l’intera società! Il riconoscimento reciproco delle membra dello stesso corpo, inoltre, va ben oltre la pura e semplice solidarietà, non è solo una risposta seppur sincera ai bisogni di qualcuno. Paolo infatti non fa leva sulla pietà per i poveri rivolgendo appelli o raccogliendo sottoscrizioni. La posta in gioco è più alta: ci sono ragioni teologiche che soggiacciono alla raccolta dei fondi. La generosità, all’interno del corpo di Cristo, emerge dalla relazione tra le sue membra e Cristo, tra i credenti e Dio. Si tratta di amministrare l’opera di grazia di Dio per la gloria del Signore stesso. In altre parole, noi amiamo perché Dio ci ha amati, siamo generosi perché Lui è generoso. Sia chi dà sia chi riceve è coinvolto in questa relazione con Dio e da questa deriva la possibilità di relazionarsi con gli altri. Vi è, pertanto, una dinamica che parte da Dio e a Lui ritorna: posso gioire della relazione di solidarietà perché so di aver ricevuto con una gratuità sovrabbondante da parte di Dio e questo suscita a sua volta la lode e la riconoscenza alla gloria di Dio. Così non solo chi riceve la colletta deve dire grazie, ma anche chi la dona; tutti devono cantare la grandezza e la bontà di Dio, perché tutti eravamo bisognosi e abbiamo ricevuto con abbondanza.
Spesso la liturgia della colletta dei nostri culti sembra priva di questa gioia.
Spesso la liturgia della colletta dei nostri culti sembra priva di questa gioia. Passiamo tra i banchi con i nostri sacchetti o le ceste, nel silenzio liturgico o nel chiacchiericcio extraliturgico. Ci resta solo la preghiera di ringraziamento pronunciata alla fine da un anziano del Consiglio di Chiesa. Dovremmo forse imparare da quelle chiese che vivono la raccolta della colletta come un vero e proprio rendimento di grazie, un offertorio in cui diciamo la nostra gioia a Dio. Il gruppo di ragazzi e ragazze del precatechismo di Torre Pellice segue da anni un progetto di adozione a distanza con un centro sociale in Camerun. A ogni incontro si raccoglie la colletta seduti in cerchio, cantando una canzone di lode a Dio, battendo il ritmo con le mani, pensando ai bambini e alle bambine di Ntolo. Cerchiamo di far capire loro che non stiamo facendo della beneficenza, ma che stiamo vivendo pienamente la comunione in Cristo. Amen.
Marcello Salvaggio
Fonte: http://www.riforma.it/
Sostieni la redazione di Notizie Cristiane con una donazione, clicca qui