«Il Guatemala in cerca dei suoi figli rubati» titolava il quotidiano svizzero “Le Temps” nel luglio di due anni fa, sul dramma dei bambini guatemaltechi scomparsi, vittime del traffico internazionale di adozioni illegittime. Un fenomeno esploso con la fine della guerra civile in Guatemala, durata dal 1960 al ’96, che ha creato un vero e proprio esercito di orfani per i quali erano semplificate le procedure per l’adozione, aprendo però un vero e proprio mercato internazionale di bambini. Stipulata la pace, il Guatemala è diventato il primo “esportatore” di bambini nel mondo, principalmente negli Usa.
I numeri sono impressionanti. Lo Schuster Institute per il giornalismo investigativo informa che nel 2007 il Guatemala e la Cina hanno autorizzato adozioni internazionali per gli Stati Uniti per quasi lo stesso numero di bambini: 4.728 dal Guatemala (su 4.918 adozioni totali), con i suoi tredici milioni di abitanti, e 5.453 dalla Cina, che di abitanti ne ha 1,3 miliardi. Sostanzialmente, ogni 110 bambini nati in Guatemala, uno era adottato negli Usa, nove su dieci fra i piccoli guatemaltechi avevano meno di un anno, e la metà meno di sei mesi.
La chiave per capire questo boom di adozioni, purtroppo, è chiara. Il 98% era gestito da un mercato privato, i “notarios”, una rete di avvocati specializzati, con un incasso di 35.000 dollari per ogni bambino, al netto delle spese per trasferimenti e soggiorni delle parti in causa, (genitori adottanti, cedenti e bambino). In Guatemala il 56% della popolazione vive sotto la soglia della povertà e il reddito medio per abitante è di 4.700 dollari all’anno.
Dalla fine degli anni ’90 ong locali, (anche con il supporto dello Human Right Office della Chiesa del Guatemala) e agenzie internazionali (Onu e Unicef), hanno denunciato il commercio a cielo aperto di bambini guatemaltechi: a volte le famiglie stesse parlavano di vere e proprie vendite (300 dollari ciascuno) dei neonati, con donne che affrontavano una gravidanza dopo l’altra come un lavoro; sono emersi poi raggiri, frodi, coercizioni e anche veri e propri rapimenti. Per porre un argine a questa piaga sociale, nel 2002 il governo guatemalteco ha ratificato la Convenzione dell’Aja sull’adozione internazionale, adeguando alla fine del 2007 la legislazione nazionale e abolendo la gestione privata dei percorsi adottivi, totalmente trasferiti allo Stato. Il risultato è stato un calo dell’80% delle adozioni dei bambini da parte degli Usa.
Ma il declino della opacissima adozione internazionale dal Guatemala sta facendo posto ad un nuovo mercato: quello della maternità in affitto. A lanciare l’allarme Karen Smith Rotabi e Nicole Footen Bromfield, due studiose impegnate sul fronte dei diritti umani, che sulla rivista “Affilia: Journal of Women and Social Work” hanno prospettato la nuova, drammatica situazione. Secondo la loro analisi, che ne conferma altre analoghe, l’adozione internazionale e le nuove tecnologie messe in campo per l’infertilità «sono interconnesse e hanno un effetto diretto le une sulle altre.
Man mano che l’adozione internazionale diventa più difficile e le attività commerciali riguardanti la fertilità continuano a globalizzarsi, l’India e i paesi del blocco dell’Est hanno assunto un ruolo guida nel fornire alternative all’adozione nell’ambito della fertilità, specialmente nella globalizzazione della gravidanza conto terzi […] Prevediamo che le modalità di maternità in affitto a livello globale tenderanno a aumentare nei paesi sviluppati», intendendo come maternità in affitto globalizzata quell’accordo commerciale per una gravidanza conto terzi dove la madre surrogata (spesso insieme a chi vende ovociti o liquido seminale) è assoldata a livello internazionale dagli aspiranti genitori.
Le autrici sottolineano che la maternità in affitto globalizzata può trasformarsi in un vero e proprio traffico di esseri umani, e a destare le maggiori preoccupazioni è proprio il Guatemala che, vicino al Nord America, rischia di soppiantare l’India come meta preferita dagli americani.
Le donne guatemalteche sono quelle con la più elevata diseguaglianza di genere nell’emisfero occidentale, secondo le ultime stime Onu, e nei percorsi di maternità in affitto corrono gli stessi rischi di soprusi già vissuti per l’adozione internazionale.
La gravidanza conto terzi in Guatemala è un business emergente nel quale è possibile ritrovare la stessa rete di avvocati già impegnata nelle adozioni internazionali, come ad esempio rivendica il gruppo Advocates for Surrogacy: «Il nostro direttore ha lavorato molti anni nelle adozioni internazionali in Guatemala, e quindi conosce bene pro e contro del lavoro in Guatemala. Ma, forse più importante, ha maturato un’esperienza nella maternità in affitto negli ultimi anni, che può trasferire al programma di surroga guatemalteca».
Di questa agenzia («Aiutiamo coppie e individui a realizzare i propri sogni senza riguardo per lo stato coniugale, preferenze sessuali, e siamo orgogliosi di supportare gravidanze conto terzi per gay») e altre ha già scritto Lorenzo Schoepflin l’8 agosto. Le autrici precisano che «non sono note violazioni etiche o formali di questo gruppo particolare».
E a chi invoca la libera scelta delle donne che potrebbero decidere, in nome della propria autodeterminazione, di diventare madri in affitto per trarne dei vantaggi, Rotabi e Bromfield rispondono spiegando in cosa consista tale presunta autonomia in paesi come Guatemala e India: la scelta di una gestazione conto terzi può essere ritenuta il male minore se l’alternativa è la prostituzione o certi lavori in fabbrica. In fondo si tratta di nove mesi di buon nutrimento e cure mediche, anche se in assenza di libertà personale, a fronte di forme di schiavitù violenta come nel mercato del sesso, o comunque di lavori duri e pericolosi.
Le due studiose chiamano in causa gli attivisti dei diritti umani, perché «alcune fra le donne che vendono i propri ovociti e corpi nel mercato globale della maternità in affitto sono fra le più povere, le più vulnerabili e le più oppresse del mondo». Di fronte all’evidente squilibrio di potere fra i benestanti che commissionano le gravidanze e gli organizzatori del business, da una parte, e le donne dall’altra, chiedono ai difensori dei diritti umani di «essere consapevoli del mercato globale della maternità in affitto e dei rischi connessi per tutti coloro che ne sono coinvolti – soprattutto le madri surrogate e i bambini nati in questo modo».
Da Avvenire.it
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