Un progetto di fattoria urbana. Un progetto intergenerazionale di inclusione sociale. Un progetto di architettura verticale e sostenibile. Tutte cose già sentite?
Forse, e se è così non possiamo che rallegrarcene, perché significa che siamo persone che hanno a cuore la responsabilità di se stesse e di chi ci sta intorno, rispettose dell’ambiente e impegnate per un mondo più giusto. Se invece quella che vi propongo oggi è una storia che vi suona nuova, che riaccende la vostra curiosità su temi sopiti, che vi fa pensare “però, che bell’idea” e magari venire la voglia di provare a coinvolgere professionisti e amici dei vostri territori su iniziative analoghe… allora sarà valsa ancor più la pena se avrete speso 5 minuti a leggere le righe che seguono.
Partiamo dal nome, Home Farm. Una fattoria in casa, ma non un orto sul balcone, non un giardino sul tetto, non un piccolo allevamento in cortile. Una fattoria cittadina direi, che si situa in un luogo particolare: la casa di riposo.
Proposto dalla Spark Architects, il progetto è risultato vincitore nella categoriaexperimental del World Architectural Festival, che si può considerare tra i maggiori festival di architettura a livello mondiale e che per l’edizione dello scorso novembre a Singapore ha ricevuto più di 700 candidature da parte di architetti e designer provenienti da oltre 47 Paesi. Pensata proprio a partire dalle esigenze di una città come Singapore, l’idea punta alla conciliazione: di nuovi spazi, di bisogni relazionali, di terapie agricole ed emotive. Propone spazi verdi sul suolo urbano con l’intento di rendere più umana la vita di molti anziani. Nonni che spesso vengono parcheggiati a tempo determinato (perché la casa di riposo non ha più niente di indeterminato) e che hanno meno occasioni di beneficiare di quei taumaturgici momenti comunitari che rendono la vita ricca e intensa oltre i malesseri, oltre i disagi fisici e mentali, oltre il pallottoliere di quei conti alla rovescia che non si vorrebbero né fare né sentir fare.
Home Farm è una struttura complessa che ha anche un obiettivo molto pratico: facilitare la produzione di ortaggi a sostituzione di quelli di importazione (a Singapore le importazioni alimentari superano il 90%) e implementare un sistema legato a filiere virtuose, biologiche, autonome. Se da un lato quindi si incentiva un circolo positivo di risparmio e qualità, e perché no anche di guadagno (le verdure vengono coltivate in primis per un consumo interno, ma anche per la vendita verso l’esterno che permetta lasostenibilità dell’operazione), dall’altro si stimola il senso di appartenenza, si potenziano i lavori di gruppo e si mantiene in esercizio l’autonomia organizzativa e di azione.
Da un punto di vista puramente architettonico, il progetto prevede, oltre a una serie di accorgimenti ecosostenibili come la raccolta dell’acqua piovana o l’utilizzo di sistemi a biomasse, l’installazione di muri vegetali con pareti curvilinee ornate di fiori e piante a cascata, soluzioni necessarie e apprezzate nelle grandi metropoli, ma non certamente indispensabili alla realizzazione di quello che del progetto rappresenta il cuore pulsante: la condivisione. In un mondo che, almeno per quanto riguarda le opulenti latitudini dei nostri “nord”, sta rapidamente invecchiando, il potenziale di un progetto simile è notevole, perché combina miglioramenti concreti che riguardano la salute (pubblica e privata), la psiche, l’alimentazione, la società nel suo complesso, puntando su un ulteriore aspetto significativo: valorizzare le relazioni tra “chi è dentro” e “chi è fuori”, le frequentazioni incrociate nei bisogni e negli anni, le conoscenze che fanno sentire vive sia le persone che di tempo ne hanno poco sia quelle che di tempo ne hanno troppo.
I “nonni” hanno per secoli detenuto un ruolo di privilegio nella famiglia, collaborando al sostegno materiale, custodendo la memoria, garantendo continuità alle generazioni, offrendo affetto e presenza. Negli ultimi anni, anche a causa della crisi economica, sembra che i nonni siano diventati ancor più un necessario prerequisito all’esistenza dignitosa di figli e nipoti, sostenendo spesso i costi di una vita che viaggia a ritmi diversi rispetto alle effettive possibilità delle generazioni più giovani. Ma sembra anche che vengano sempre più delegati a cure esterne alle cerchie affettive, siano esse quelle di operatrici familiari o quelle di strutture adibite. Un pensiero va fatto, al di là degli ostacoli che la società ci pone davanti: è ora di riportare i nonni nel posto che meritano, che si trova esattamente lì, non necessariamente al centro delle nostre case raggomitolati nelle pieghe di una poltrona, ma al centro dei tessuti relazionali che ci permettono di immaginare un futuro più equo, solidale, umano.
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