Se la Cassazione valuta il figlio come un oggetto

Non far abortire costa caro ai medici. Partiamo dai fatti. Una donna della provincia di Brescia è in dolce attesa. Alla ventunesima settimana di gestazione si sottopone ad una ecografia. Pare che tutto vada nei migliori dei modi. Poi invece il figlio nasce privo degli arti superiori, malformazione che determina una invalidità totale e permanente al 100%. La donna insieme al marito chiedono un risarcimento all’Asl dove avevano fatto gli accertamenti diagnostici.

Infatti, così sostengono, se avessero saputo che il figlio era malformato avrebbero abortito, possibilità offerta alle donne dalla legge 194 anche dopo il 90° giorno di gravidanza. L’Asl non ci sta a pagare e si va in giudizio. Il Tribunale di Brescia condanna l’Asl a pagare alla coppia un totale di 450.000 euro per la “perdita di chance” (sic), ossia la perdita “della possibilità di valutare le due alternative oggettivamente possibili e di scegliere quella, comunque dolorosa, meno grave”.

In breve, l’Asl deve pagare perché la mancata individuazione della malformazione del bambino ha comportato un vulnus alla libertà della donna: quest’ultima infatti, sapendo ciò, avrebbe potuto scegliere di abortire.

Il giudizio prosegue a approda in appello. Qui i giudici ribaltano parzialmente la sentenza di primo grado. Infatti, secondo la Corte di appello, la coppia non ha fornito la prova che l’informazione in merito alla disabilità del feto avrebbe comportato un grave pericolo per la salute della gestante – uno dei criteri richiesti dall’art. 6 legge 194 per poter abortire dopo il 90° giorno –  né si è data prova che, anche ammesso che tale pericolo ci fosse stato, la situazione di rischio per la salute della donna sarebbe stata giudicata dalla coppia motivo valido per abortire. I giudici infatti avevano aggiunto che le malformazioni del figlio non sono così rilevanti da configurare una condizione oggettiva legittimante l’aborto, ossia mancano i “requisiti imprescindibili per consentire l’interruzione di gravidanza dopo il primo trimestre”.

La Corte di Appello di Brescia ha comunque acconsentito ad un certo risarcimento, pari a 100.000 euro, perché la mancata informazione in merito alla salute del figlio ha comportato per i due l’impossibilità di prepararsi psicologicamente ad accogliere un figlio disabile.

La coppia ricorre in Cassazione perché 100.000 euro paiono a loro pochi per non essere riusciti ad uccidere il figlio. E i giudici di piazza Cavour a Roma danno loro ragione. Prima di analizzare la decisione dei giudici è bene ricordare che la 194 permette di abortire dopo il 90° giorno, tra gli altri motivi, anche quando le malformazioni del feto possono provocare un grave danno psicologico alla donna. Ora, come si fa a decidere se la mamma di Brescia, una volta informata della malformazione del feto, avrebbe intrapreso la strada dell’aborto? Occorre dare prova – dicono gli ermellini – che quella malformazione  avrebbe causato un grave danno psicologico alla sua persona. E come si fa a provare ciò? Dato che non esiste la macchina del tempo e bisogna calarsi in un contesto meramente ipotetico pieno di se, gli elementi di prova non possono che essere presunti.

Ad esempio la volontà di conoscere lo stato di salute del figlio, la particolare condizione piscologica della donna e i suoi pregressi giudizi sull’aborto possono benissimo portare a provare che la donna, se debitamente informata, avrebbe deciso di abortire. L’eventuale prova contraria deve essere data dall’Asl. La Cassazione aggiunge che, in tale ricostruzione ipotetica delle volontà della donna, non rileva la gravità della malformazione, dato che, per ipotesi, si può provare che anche un lieve difetto sarebbe stato motivo sufficiente per abortire per quella donna particolare. La Cassazione quindi afferma che “sarà compito del giudice del rinvio, pertanto, valutare, sul piano probabilistico […] l’esistenza o meno di una lesione del diritto […] di scelta se interrompere o meno la gravidanza”. La palla quindi passa nuovamente in appello.

La Cassazione e i giudici di merito non sono nuovi a sentenze come queste le quali in buona sostanza legittimano il risarcimento danni per mancato aborto. Il principio su cui si fondano è il seguente: l’aborto è un vero e proprio diritto soggettivo. Se non fosse un diritto verrebbe meno il motivo di risarcirlo laddove fosse violato. Se è un diritto, la donna deve essere messa nelle condizioni di esercitarlo al meglio, ad esempio deve essere in possesso di tutte quelle informazioni utili per scegliere se abortire o meno.

E’ interessante anche notare l’ambito giuridico in cui sorgono queste vertenze. E’ quello civilistico, ma non quello civilistico-familiare, bensì quello patrimoniale. Si tratta il figlio come una cosa, un bene mobile su cui si vantano diritti di proprietà. Come Tizio può trascinare in giudizio Caio perché gli ha venduto un’auto con un difetto di costruzione occulto e vuole essere risarcito, parimenti una coppia di genitori può chiamare alla sbarra un ospedale perché ha consegnato loro un figlio ugualmente difettoso. L’unica differenza sta nel fatto che l’auto, in alcune ipotesi, possiamo restituirla, ma non così il figlio. E così la madre da gestante (e non “da paziente” dato che la gravidanza non è una patologia) diventa cliente, il figlio da neonato diventa prodotto, gli ospedali da luoghi di cura diventano concessionarie e i medici da professionisti diventano addetti alla vendita e pure al controllo di qualità ISO 9.000.

Sentenze di questo tipo disegnano scenari disumani. Qualche domanda retorica. Ad esempio questo bambino bresciano quando saprà che sua madre avrebbe preferito abortirlo, come reagirà? Cosa penserà quando saprà che i propri genitori hanno chiesto il risarcimento danni per il fatto che è in vita? Si sentirà come un “danno esistenziale e perenne” a carico di mamma e papà? Qualificherà la propria vita come una lesione alla loro felicità, una lesione liquidabile in denaro? E dunque, se la logica non è un’opinione, la sua vita varrà esattamente 450mila euro, i soldi che i suoi genitori ritengono una congrua compensazione non tanto per un figlio non voluto, ma per un figlio non voluto così come è lui? A rendere più fosco il quadro c’è poi da aggiungere che la coppia bresciana aveva chiesto anche un distinto risarcimento a nome del figlio per essere nato. Richiesta rigettata.

Ed infine un ultimo interrogativo: a quando una sentenza sull’obbligo per gli ospedali di inserire una clausola contrattuale nel consenso informato che obbliga le aziende ospedaliere al “soddisfatti e rimborsati” o almeno ad un diritto di recesso dopo 30 giorni dalla nascita?

Tommaso Scandroglio | Lanuovabq.it

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