Roma (NEV/Riforma.it), 29 maggio 2023 – Lo chiamano “il muro” ma in realtà è una mostruosa barriera di ferro alta 10 metri, un serpente metallico che si snoda dalla costa occidentale della California verso l’Est, separando Stati Uniti e Messico. Fortemente voluto da Trump, questo muro doveva sostituire quelli, più modesti e parziali, eretti dai suoi predecessori lungo alcuni tratti del confine: un’opera da 16 miliardi di dollari, abbandonata da Joe Biden che però, paralizzato dal Congresso e forse dalla sua stessa incertezza, non ha messo mano ad alcuna riforma dell’immigrazione che preme lungo la frontiera meridionale degli Usa.
La città di Nogales, sul lato messicano del confine, è affollata di maquiladoras: centri industriali affittati da imprenditori statunitensi che delocalizzano le loro produzioni in un paese in cui il lavoro costa meno. I sindacati non hanno alcun accesso in questi stabilimenti che hanno un volume d’affari superiore all’industria del turismo in Messico. Lo sfruttamento degli operai delle maquiladoras è un frutto avvelenato degli accordi NAFTA del 1994, quelli che autorizzavano il libero scambio tra Messico, Stati Uniti e Canada, di fatto indebolendo le economie più povere ed esponendo migliaia di lavoratori al ricatto di aziende che operano senza controlli di alcun tipo.
Lungo il muro si scorgono delle croci e i mazzi di fiori che ricordano le vittime dell’immigrazione, morti nel tentativo disperato di attraversare la frontiera. Talvolta a uccidere sono stati gli agenti della Border Patrol, la polizia di frontiera, ma se non sono stati loro a sparare, è il deserto a togliere la vita: secondo la Cnn, nel 2022 i morti lungo la frontiera Usa-Messico sono stati 748.
Per evitare di imbattersi nella polizia di frontiera ed essere arrestati e respinti, i migranti prendono la via del deserto di Sonora affidandosi ai coyote, termine del tutto appropriato per identificare i trafficanti che chiedono 7000 o 8000 dollari per guidarli nei pressi di un varco nel muro. È questo l’estremo paradosso del serpente gigante: soltanto nei pressi di Nogales, infatti, si contano trentacinque varchi attraverso i quali è possibile entrare nel territorio dell’Arizona. Che senso hanno? Qualcuno dice che sono una “trappola”, un passaggio facile che attira i migranti che vogliono entrare clandestinamente negli Usa, così che la Border Patrol possa intercettarli. L’ipotesi è contorta ma plausibile. Ai lati di ogni varco si vedono delle bottiglie d’acqua.
«Siamo noi a depositarle e ad assicurarci che chi arriva dopo aver percorso chilometri nel deserto trovi qualcosa da bere – ci dice John, uno dei Samaritani che ogni settimana svolge un servizio di soccorso nel deserto. Samaritani, come l’uomo che nel racconto biblico di Luca (10, 25-37) si era fermato a soccorrere un ferito lungo la strada che da Gerusalemme scendeva a Gerico. «Partiamo la mattina presto dal piazzale della nostra chiesa del Good Shepherd – ci dice – con uno o due fuoristrada carichi di viveri, acqua, coperte e generi di prima necessità e ci mettiamo a pattugliare il deserto per soccorrere i profughi, indeboliti da giorni di cammino e disorientati». I Samaritani li ha fondati Randy Mayer, un pastore della United Church of Christ, una delle chiese protestati storiche degli Stati Uniti: solida teologia protestante, creatività diaconale ma soprattutto un grande talento nel valorizzare i membri della propria comunità e coinvolgere persone anche esterne a essa. «Io sono di origine presbiteriana – spiega John – ma mi sono avvicinato alla Chiesa del Good Shepherd proprio perché condivido e apprezzo il suo impegno umanitario». Con un passato di manager nel settore dell’auto, John non ha molto dell’attivista radicale, eppure ogni settimana indossa una t-shirt con la scritta «L’aiuto umanitario non è mai un crimine» e si dedica a una missione di soccorso nel deserto. E i rapporti con la polizia di frontiera? «Molto formali: loro fanno il loro lavoro e noi il nostro, nei limiti previsti dalla legge: a esempio non diamo mai un passaggio, salvo che a persone gravemente ferite, e in questo caso ci tuteliamo sottoscrivendo un’autodichiarazione in cui spieghiamo perché abbiamo caricato un migrante. Il rischio, infatti, è una denuncia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».
Lungo questa affollata frontiera non ci sono solo migranti, soccorritori e polizia. Ci sono anche i vigilantes, gruppi di cittadini armati che con la loro minacciosa presenza vogliono chiarire che gli Stati Uniti non sono un paese che accoglie i migranti. E poi, sullo sfondo, ci sono gli uomini dei Cartel, le varie organizzazioni criminali che gestiscono tutti i possibili affari tipici della frontiera: contrabbando, droga, estorsioni, rapimenti, immigrazione clandestina.
I Samaritani vanno per la loro strada. Come gli uomini e le donne della Underground Railroad che duecento anni fa proteggevano gli schiavi in fuga verso il Canada, anche essi aprono nel deserto una strada verso la salvezza. E quando i migranti sono intercettati dalla Border Patrol? «Vengono arrestati e, a seconda dei casi, deportati in Messico con il divieto di rientro negli Stati Uniti per cinque anni oppure rinchiusi in un centro di protezione temporanea nel quale possono avviare la pratica per la richiesta d’asilo.
Il problema è che non vi sono regole certe e talora viene respinto anche chi avrebbe diritto alla protezione internazionale. Questo posto – spiega John con amarezza – è diventato la nuova Ellis Island. Non avremmo mai immaginato di doverci impegnare a sistemare riserve d’acqua lungo i sentieri del deserto ma oggi è questo semplice gesto che può salvare la vita di migliaia di persone».
https://www.nev.it/nev/2023/05/29/samaritani-nel-deserto/
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