L’attentato di domenica sera, 13 agosto, in un ristorante turco di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha riportato all’attenzione internazionale la minaccia jihadista in Africa subsahariana, contenuta, in certe regioni ridimensionata, e tuttavia persistente. I gruppi legati ad al Qaida o all’Isis, alleati o antagonisti, hanno il comune obiettivo di destabilizzare i paesi in cui agiscono e di controllare estese aree di territorio approfittando delle debolezza o della noncuranza dei governi africani.
Domenica quattro militanti di uno di questi gruppi armati, si suppone legato ad al Qaida, hanno raggiunto in motocicletta il ristorante Aziz Istanbul che si trova sull’Avenue Kwame N’Krumah, in pieno centro città. Era l’ora di cena, il ristorante, rinomato e frequentato da molti stranieri, era affollato. I jihadisti hanno aperto il fuoco sui clienti seduti in terrazza uccidendone 18 e ferendone almeno 17, tra cui molti bambini. Poi si sono asserragliati all’interno dell’edificio prendendo in ostaggio una quarantina di persone. L’attacco è iniziato alle 21 circa. Le forze di sicurezza giunte sul posto hanno lanciato un contro attacco alle 22.15 riuscendo a liberare gli ostaggi. L’azione si è conclusa verso le 5.00 di lunedì con la morte dei terroristi.
Nelle ore successive fonti governative hanno detto che otto delle vittime erano di nazionalità burkinabé e almeno sette erano straniere: un francese, un nigeriano, un senegalese, una donna canadese, un turco e due kuwaitiani.
L’assalto al ristorante Aziz Istanbul è stato condotto con modalità che ricordano quelle dell’attacco del gennaio 2016 all’Hotel Splendid e al ristorante Cappuccino, sempre a Ouagadougou, nella stessa via, a soli 200 metri di distanza. I jihadisti avevano preso in ostaggio 170 persone e ne avevano uccise 30. L’attentato era stato rivendicato da Aqmi, al Qaida nel Maghreb islamico.
Il Burkina Faso si trova nel Sahel, infestato da cellule terroristiche, e condivide una lunga frontiera con il Mali, paese in cui sono attivi diversi gruppi islamisti, in particolare a partire dal 2012 e nelle regioni settentrionali dove per mesi hanno controllato vaste aree e le tre principali città: Timbuctu, Gao e Kidal.
Poche ore dopo l’attacco al ristorante altri uomini armati hanno colpito una base della missione Onu di peacekeeping a Timbuctu uccidendo sette persone prima che i caschi blu riuscissero a respingere gli assalitori uccidendone a loro volta quattro. Benchè l’azione non sia stata ancora rivendicata, è certo che gli autori siano dei miliziani jihadisti.
I gruppi armati islamisti che continuano a mantenere delle basi e a operare nel nord del Mali riescono a mettere a segno attentati e attacchi nei paesi vicini in collaborazione con altri gruppi jihadisti, nonostante che nel 2013 l’intervento della Francia, con una missione militare sollecitata dal governo maliano, e quello dei peacekeeper delle Nazioni Unite, con la missione Minusma, li abbiano respinti e in parte dispersi. La missione Minusma, forte di oltre 15.000 unità tra militari, agenti di polizia e civili, è considerata non a caso una delle missioni più a rischio. Dall’inizio delle operazioni ha perso più di 100 uomini.
Proprio i servizi di intelligence della Minusma nei giorni scorsi avevano lanciato un allarme sia in Mali che in Burkina Faso sospettando che si stessero organizzando degli attentati. Nelle strade di Ouagadougou erano comparsi molti posti di blocco e la Minusma aveva chiesto al proprio personale e ai collaboratori esterni di non servirsi di strade di campagna. Tuttavia questi accorgimenti non sono valsi a evitare i due attacchi.
Poco più di un mese fa, il 2 luglio, gli stati del G5 Sahel, un organismo creato nel 2014 che comprende Mali, Burkina Faso, Mauritania, Niger e Ciad, hanno deciso di creare una forza militare regionale anti-terrorismo per meglio contrastare i gruppi jihadisti nel Sahel. Il reparto composto da circa 10.000 militari messi a disposizione dai cinque paesi dovrebbe entrare in funzione entro la fine del 2017. Almeno il 50 per cento dei suoi costi saranno sostenuti dall’Unione Europea.
Nel 2015 Niger e Ciad, insieme a Nigeria, Camerun e Benin, hanno creato per combattere Boko Haram, i jihadisti nigeriani, una analoga forza militare che in pochi mesi è riuscita a riconquistare i territori e le città di cui il gruppo si era impadronito fondandovi un Califfato fedele all’Isis. Da allora Boko Haram ha ridotto la propria portata d’azione e la frequenza degli attacchi. L’Unione Europea finanzia con decine di milioni di euro anche l’unità militare – altri 10.000 uomini circa – che combatte contro Boko Haram.
In Somalia dal 2007 è operativa Amisom, la missione di peacekeeping dell’Unione Africana creata per contrastare un altro potente gruppo jihadista legato ad al Qaida, al Shabaab. Pur avendo dovuto nel 2012 abbandonare parte dei territori che controllava, il gruppo sfida tuttora il governo somalo e costituisce una minaccia regionale. L’Unione Europea paga gli stipendi – 1.028 dollari al mese – dei 22.000 militari della Amisom.
“Aiutare a casa loro” gli africani vuol dire anche questo.
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