Spesso chi pratica violenza ne ha subìta, ma ciò non basta per capire tutti i perché. Un progetto che lavora con gli uomini maltrattanti per farli uscire dal vortice della violenza.
La violenza contro le donne continua a essere un fenomeno ampio e diffuso nel nostro paese. Secondo i dati dell’Istat, 6 milioni e 788 mila donne hanno subìto una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita: una su tre tra i 16 e i 70 anni, il 31,5%. La violenza maschile sulle donne è un fenomeno grave, che come spesso diciamo non va affrontato nell’emergenza, perché si tratta di un fenomeno strutturale e trasversale nella nostra società.
La Federazione delle Donne Evangeliche in Italia ha da poco proposto due petizioni contro la violenza di genere, una firmata dagli uomini e l’altra sottoscritta dalle donne, con una comune richiesta al Dipartimento delle pari opportunità del governo italiano nel quale si chiede di superare tutti gli ostacoli di ordine burocratico per far arrivare ai centri antiviolenza i fondi a essi destinati, ma anche di avviare servizi e interventi sul territorio, mirati alla prevenzione, che abbiano gli uomini come destinatari specifici.
In questa direzione va il progetto Uomini Liberi dalla Violenza, finanziato dall’Otto per mille della Chiesa Valdese e gestito dall’associazione antiviolenza Ponte Donna, che lavora a Roma con detenuti ed ex detenuti che hanno praticato violenza contro le donne per permettere loro di prendere coscienza delle loro azioni e impedire la recidiva. Inoltre, il progetto insiste sulla necessità di restituire la responsabilità genitoriali a chi ha commesso violenza contro le donne e spesso a bambini e bambine. Ne abbiamo parlato con Laura Storti, psicanalista e psicoterapeuta dell’associazione il Cortile, partner del progetto.
Perché partire dagli uomini?
«Perché pensiamo che la violenza sulle donne sia soprattutto un problema degli uomini. È chiaro che le donne devono essere aiutate in percorsi appositi, seguite e fornite di strumenti per uscire da questa situazione, però nel tempo ci siamo resi conto che effettivamente si deve guardare anche agli uomini. Lì sta il problema del fenomeno strutturale. Oltre a ciò, negli anni ci siamo occupate di accompagnamento dei figli di uomini violenti e loro stessi ci hanno spinto a occuparci dei loro padri, che volevano vedere e incontrare (in alcuni casi). Abbiamo iniziato dunque con incontri protetti che il tribunale concede a questi uomini e ci siamo rese conto che, mentre le donne facevano un percorso di uscita dalla violenza fatto di recupero delle responsabilità genitoriali, gli uomini invece no. Lavorare con loro era fondamentale per due motivi: diminuire l’altissimo tasso di recidiva (teniamo conto che il 70% delle donne uccise aveva già sporto denuncia) e occuparci del recupero delle loro capacità genitoriali. Nel 2010 abbiamo quindi aperto uno spazio di ascolto dedicato a loro all’interno della Casa internazionale delle donne; in questo siamo state delle pioniere ancor prima che l’Italia firmasse la convenzione di Istanbul che prevede il lavoro con gli uomini. Nel 2015 abbiamo avuto un finanziamento per un progetto che riguardava gli uomini condannati per reati di violenza contro le donne, Uomini liberi dalla violenza».
Anche questo è un progetto innovativo?
«Si, lo è. Prevede l’istituzione di una casa di semi-autonomia dove possono essere ospitati uomini che hanno scontato la loro pena per reati di violenza contro le donne, seguendo dei progetti che hanno come obiettivo il reinserimento sociale e lavorativo. Il primo passo che abbiamo fatto è stato entrare noi nel carcere, per cominciare ad ascoltare gli uomini che stanno scontando la pena. Essendo un servizio che viene attivato su richiesta del detenuto, non imponiamo niente a nessuno, ma mettiamo a disposizione uno spazio per far riflettere l’uomo su cosa l’ha portato lì. Pensiamo che la presa d’atto sia il primo passo di una rivisitazione: riflettere perché sono arrivati a maltrattare fino ad uccidere donne che loro dicono di amare è fondamentale. Pensiamo che ci sia qualcosa che ogni uomo deve riprendere e capire».
Il fenomeno della violenza sulle donne è trasversale o si può inquadrare in un modello preciso di uomo?
«Non c’è un identikit dell’uomo violento, ma al contempo generalizzare non serve. Una cosa si può dire: alcuni uomini violenti hanno avuto degli esempi negativi oppure hanno subito a loro volta violenza. E non parliamo solo di quella fisica, ma di violenza psicologica, un disvalore che si può imporre ai propri figli. Gli elementi sono tanti e ciascuno li elabora a modo suo, le esperienze che ognuno fa da quando viene al mondo a quando compie i suoi atti lasciano un segno. Con il progetto, più che una rieducazione noi diamo uno spazio a queste persone affinché possano riflettere su cosa li ha condotti a quell’atto, che è qualcosa che divide il soggetto, lo lacera, tanto che esso stesso quasi mai si riconosce in quel gesto violento. Perché? Ricercare i motivi è fondamentale per il processo. Diremmo per convenienza, ma non è così semplice. Occorre ricucire queste personalità divise».
Quali risultati ha portato questo lavoro?
«Il tempo di analisi è breve, così come il tipo di lavoro non su grandi numeri ma su un piccolo contesto, ma si può dire che i risultati ci sono. Per tutti gli uomini che hanno richiesto il percorso si arriva all’assunzione di ciò che hanno fatto e al successivo rifiuto, che rappresenta un passaggio fondamentale. Dopo che gli uomini hanno non solo accettato il proprio reato davanti alla giustizia, ma hanno sentito una rottura interiore, a quel punto è importante accompagnarli lungo questo percorso. In quel momento abbiamo la prova che la violenza non si ripeterà, non ci sarà la ripetizione soggettiva dell’atto violento».
Immagine: via pixabay.com
di Matteo De Fazio | Riforma.it
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