In Italia i senzatetto sono circa 50 mila, secondo i dati di Istat, Ministero del lavoro e Caritas. Il numero è calcolato in base a chi utilizza servizi di mensa o di accoglienza notturna, ma potrebbe essere più alto, considerando chi non accede nemmeno a questi servizi del volontariato. Il Fio.Psd, la federazione nazionale che in Italia raggruppa gli enti che si occupano di senza dimora, due anni fa ha ideato il progetto Housing First, che propone di utilizzare la casa come tassello base su cui ricostruire la vita delle persone che vivono per la strada che spesso vengono definiti invisibili, ma sono una realtà «complessa e pluriproblematica» come dice la presidente Cristina Avonto. Da pochi giorni la federazione ha sottoscritto un protocollo con il ministro Poletti con cui il Governo si impegna a occuparsi di questa tematica, finanziando il progetto con 100 milioni di euro: «l’agenda dei politici inizia a contemplare il tema della povertà, e questo è un segnale importante – continua Avonto – fino ad oggi si è lasciato da parte questo tema. Il Governo ha sancito il primo piano nazionale di lotta alla povertà e questo protocollo si inserisce in questo progetto».
Perché questo progetto?
«Da due anni Fio.Psd ha lanciato il programma sperimentale Housing First, poiché secondo noi la prima soluzione per le persone che sono per strada è dare loro una casa. Da qui si lavora sul reinserimento sociale, sulla cura, sulle basi per sostenere queste azioni. Senza la sicurezza e la dignità di un’abitazione, ma solo con interventi tampone, non riusciamo a togliere gli homeless da questa situazione di precarietà».
Le persone per la strada sono in queste condizioni solo perché non hanno una casa?
«Il discorso della problematicità collegata all’essere senza dimora è complesso, sicuramente le persone hanno problemi correlati come tossicodipendenza, abuso di sostanze, difficoltà psichiatriche, fragilità di percorsi sociali, perdita del lavoro o di reti sociali. La problematicità dell’homeless è multifattoriale e multidimensionale. Ciò che noi sosteniamo è che affrontare questa situazione non è possibile se non in uno stato di benessere iniziale: chiedere a una persona di lavorare su una dipendenza, di trovare un lavoro o iniziare una cura dormendo in un dormitorio, diventa una sfida impossibile. Le persone si cronicizzano e non riescono ad affrontare il loro problema. Avete mai visto un dormitorio? È una situazione tampone ma che non può essere soluzione, né uno snodo per affrontare il problema. Con Huosing First ribaltiamo il paradigma: i bisogni primari sono soddisfatti, partendo da qui possiamo lavorare sul resto».
Qual è percorso di inserimento?
«Essendo un progetto sperimentale riguarda una piccola fetta di persone ed è stato finanziato solo con risorse del privato sociale. Oggi 500 persone sono in alloggi Housing First. Il protocollo serve a dire che da ora in avanti con i fondi ministeriali possiamo fare di più. Alle persone intercettate viene proposto l’inserimento in un alloggio: il contratto è la semplice accettazione delle regole di convivenza civile e di essere presi in carico di un equipe che lavora con loro. Successivamente la persona può determinarsi e decidere il meglio per sé nella propria casa».
Cosa serve perché il tema degli “ultimi” entri maggiormente nelle agende politiche?
«Credo che le organizzazioni del terzo settore e del privato sociale, oltre che i cittadini, abbiano una grande responsabilità nel fare squadra con le istituzioni, mantenendo il senso critico. La logica dev’essere quella di concertazione con il pubblico pur sollevando le problematicità ed evidenziando le mancanze. È questo il nostro ruolo per avere politiche corrette, innovative, trasparenti e misurate. Misurare i risultati a seguito degli interventi è indispensabile per orientare in maniera corretta l’azione nel sociale».
Foto: ptrabattoni via Pixabay
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