I dati sono drammatici, anzi tragici. Altro che inclusione, affermazione di sé o provvedimento volto a star meglio con sé stessi e con gli altri. Il rischio di autolesionismo e tentativo di suicidio in seguito a un intervento chirurgico per l’affermazione di genere è addirittura 12 volte più elevato rispetto a chi non ha subito tale procedura. A dirlo la ricerca di una equipe di sette ricercatori dell’università del Texas composta da John J. Straub, Krishna K. Paul, Lauren G. Bothwell , Sterling J Deshazo, Georgij Golovko, Michael S. Miller, Dietrich V Jehle.
Nello specifico lo studio coinvolge ben 56 organizzazioni sanitarie degli Stati Uniti e oltre 90 milioni di pazienti e smentisce gli esperti da salotto e da lobby arcobaleno che seguono i diktat europei e sovranazionali sul tema: «i dati – si legge – sono stati analizzati per esaminare tentativi di suicidio, morte, autolesionismo e disturbo da stress post-traumatico entro cinque anni dall’evento del cambio di sesso. Lo studio ha coinvolto quattro coorti: coorte A, adulti di età compresa tra 18 e 60 anni sottoposti a intervento chirurgico di affermazione del genere e visita di emergenza; coorte B, gruppo di controllo di adulti con visite di emergenza ma senza intervento chirurgico di affermazione del genere; e coorte C, gruppo di controllo di adulti con visite di emergenza, legatura delle tube o vasectomia, ma nessun intervento chirurgico di affermazione del genere».
La chirurgia per l’affermazione del genere, secondo la pubblicazione registrata anche su Pub.Med, è dunque «significativamente associata a rischi elevati di tentativi di suicidio». Rischi addirittura, si diceva, 12 volte superiori. Un risultato, questo, che smentisce pesantemente il pensiero unico e la falsa narrativa arcobaleno secondo cui, assecondando magari una “moda” del momento, l’intervento chirurgico per il cambio di sesso porti a una soluzione del problema di confusione di genere. Tutt’altro: l’impatto sulla psiche delle persone a seguito della decisione, senza pensare all’impatto sulla mente dei giovani e giovanissimi sottoposti continuamente a bombardamenti ideologici sul tema, è un qualcosa di devastante, capace di portare chi decide di fare questo passo non solo, in alcuni casi, a farsi del male ma anche a pensare addirittura di farla finita.
Questi dati, dice la ricerca, «sottolineano come minimo la necessità di un supporto psichiatrico post-procedura completa» (ma, ribadiamo noi, anche pre-procedura) per chi si sottopone all’intervento e, più approfonditamente, sottolineano altresì la necessità di rivedere in toto la questione.
Sono sufficienti, infatti, questi numeri per dare un taglio, finalmente, a questa pericolosa ideologia? E di chi è la responsabilità delle conseguenze di questo indottrinamento arcobaleno? A chi giova continuare a portare avanti queste ideologie che con troppa frequenza entrano nelle scuole dei nostri figli senza porvi un minimo freno? A chi giova investire su una procedura invasiva che già in molti Paesi ha cominciato a mostrare il suo vero volto, inducendo molto spesso i governi a un dietrofront necessario?
Ancora una volta, dunque, con sempre più dati alla mano, siamo costretti a ribadire come occorra combattere l’ideologia gender imperante capace di ribaltare una società fino a devastare la mente di chi decide di ricorrere a tale pratica. L’abbiamo visto e ora ne abbiamo ulteriormente le prove: è letteralmente una questione di vita o di morte.
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