Ripensare l’omogeneità : la questione biblica delle chiese multietniche

Sono un cristiano, un indiano e un ex musicista rock.

Sono cresciuto nel Sud dell’India e ho vissuto in una peculiare sottocultura del mio singolo sobborgo multietnico urbano.

Quando il Signore mi ha salvato durante l’ultimo anno dell’università mi sono ritrovato subito circondato da persone completamente diverse da me – persone di culture ed etnie diverse che parlavano diverse lingue, mangiavano vari tipi di cibi e che avevano persino gusti musicali completamente diversi da me (non sapevano nemmeno chi fossero i Deep Purple!).

Ero a disagio? Sì.

Ma ciò che di contro mi stupiva all’epoca, ed è ciò che continua a farlo, non sono le differenze radicali e le “diversità” che ci separavano. No, quello che mi stupiva sono l’unità e la comunione fraterna che queste persone condividevano l’uno con l’altro, nonostante tutte le loro diversità – un’unità e comunione fraterna a cui sono stato annesso mediante la mia conversione a Cristo, il quale ha abbattuto ogni barriera e riunito insieme tutte le persone in quanto membri della sua famiglia.

Nel Nord America come nelle opere missionarie di tutto il mondo il “principio dell’unità omogenea” della crescita di chiesa è sempre stato indiscutibilmente assunto come lo strumento più efficace per aumentare i discepoli e creare delle chiese “strategiche”[1]. I guru della crescita della chiesa sostengono che le chiese crescono più velocemente quando il vangelo viene propagato attraverso le reti e le caratteristiche sociali esistenti e nel momento in cui le persone non devono superare delle barriere etniche, culturali o di classe per diventare cristiani.[2] Perciò le persone si aggregano in chiese caratterizzate da tratti etnico-linguistici simili, da distinzioni tribali o di casta, dal ceto sociale ed economico, il livello di educazione, la professione e perfino i gruppi di affinità comuni – come le chiese per cowboy o per gli amanti del rally. Il “principio dell’unità omogenea” della crescita di chiesa afferma che tali chiese omogenee crescono più velocemente perché accolgono gli stranieri che potrebbero sentirsi a disagio nel superamento di vincoli culturali, etnici o di altro tipo. Questa omogeneità “strategica” pervade molteplici organizzazioni che si occupano di fondare nuove chiese e riempie le pagine di manuali di strategia missionaria e di avvio di nuove chiese. Ma la Bibbia sostiene l’omogeneità? Oppure le Scritture espongono una visione diversa per la chiesa locale?

In questo articolo il mio scopo è di sfatare il “principio dell’unità omogenea” della crescita della chiesa dimostrando che questa struttura pragmatica si oppone in maniera antitetica alla visione apostolica della chiesa nel Nuovo Testamento. Così facendo, affermerò che, se possibile, costituire delle chiese multietniche è non soltanto più fedele alle Scritture ma anche che le chiese multietniche manifestano più ampiamente il glorioso vangelo di Gesù Cristo.[3] In altre parole le chiese dovrebbero sforzarsi di essere diversificate almeno quanto lo sono le comunità di cui fanno parte.

UNA (BREVE) TEOLOGIA BIBLICA DEL PIANO DI REDENZIONE MULTIETNICO DI DIO

Per stabilire il contesto della visione multietnica del cristianesimo del Nuovo Testamento esplorerò brevemente il modo in cui questo tema si sviluppa al di fuori degli standard classici. La diversità linguistica nelle Scritture a inizio a Babele, quando Dio reagisce all’arrogante ribellione del genere umano confondendo le loro lingue (Gen. 11:1-9). Nella pagina successiva vediamo il piano di redenzione multietnico di Dio con la sua promessa di alleanza ad Abramo secondo la quale tutte le nazioni saranno benedette nel seme di Abramo (Gen. 12:1-3; 22:15-18). Questa promessa si pervade tutto il corpo del testo biblico: infatti a Davide viene promessa l’universale sovranità di un regno mediante il quale la legge e la gloria di Dio si sarebbe stabilita su tutta la terra (II Sam. 7:19; Salmi 72:17-18). I profeti mettono ulteriormente in luce questa visione nel momento in cui preannunciano la gloriosa restaurazione escatologica nella quale un Israele ricostituito e restaurato sarà composto non solo dall’etnia ebraica ma anche da persone provenienti da tutte le nazioni che adorano e conoscono Yahweh, il vero e vivente Dio (Isa. 2:2-4; 56:6-8; Zac. 8:20-23).

Il Nuovo Testamento ci mostra che la promessa di redenzione globale di Dio si è adempiuta in Cristo e il confine del popolo di Dio non è più delimitato dall’identità ebraica ma piuttosto dal ravvedimento e la fede in Gesù Cristo. Israele è riunita, ricostituita e risorta in e mediante il Messia risorto che ha stabilito il nuovo patto mediante il suo sangue. La fede in Cristo fornisce pieno accesso all’appartenenza al popolo di Dio del nuovo patto. Questo movimento storico-redentivo si evolve nel libro degli Atti quando Luca ci mostra il vangelo che va espandendosi in cerchi concentrici più ampi per includere coloro che un tempo ne erano esclusi. Il popolo di Dio viene riunito in assemblee locali che proclamano e riflettono il glorioso vangelo di Cristo. Il Nuovo Testamento culmina nella straordinaria visione di un’innumerevole moltitudine di persone redente provenienti da ogni tribù, lingua e nazione, i quali adorano Cristo all’unisono (Ap. 7:9-10).

L’ETEROGENEITA’ DELLE CHIESE APOSTOLICHE

La visione teologico-biblica della redenzione globale ci aiuta a comprendere il modello apostolico delle chiese. Nel Nuovo Testamento l’estremamente varia gloria dell’opera di redenzione di Cristo si riflette nella fondazione di chiese locali aventi in comune tratti etnici, culturali, socioeconomici e perfino di tipo linguistico.[4] Questo sorprendente modello apostolico dell’eterogeneità scaturisce dalla ferma e diffusa determinazione dell’unità in Cristo, il quale ha riconciliato i credenti a Dio e l’uno con l’altro (Gal. 3:28; Col. 3:11).[5] La “diversità” delle varie persone è sorpassata dall’“unità” che queste persone condividono in Gesù Cristo.

Mentre la chiesa primitiva cresceva gli apostoli si trovavano ad affrontare una serie di problemi derivanti dalla diversità delle congregazioni nascenti, ma nonostante ciò non andarono mai a suddividere la chiesa in unità omogenee. La prova negli Atti è che la chiesa originariamente formata alla Pentecoste era composta da ebrei cristiani provenienti da contesti linguistici e culturali ad ampio raggio (Atti 2:5-11). In Atti 6:1-6 emergono delle tensioni tra coloro che provengono da gruppi linguistico-culturali diversi denominati gli ebrei della Diaspora (Ellenistici) e gli ebrei Siro-palestinesi. Gli apostoli non li fecero separare ma risolvettero le problematiche designando degli uomini appartenenti ai gruppi di minoranza per l’opera del servizio. Gli Atti rafforzano ulteriormente la natura eterogena della chiesa primitiva rappresentando la diversità nella conduzione della chiesa di Antiochia (cfr. Atti 13:1), che includeva un ex fariseo (Paolo), un ex Gentile (Lucio), un ex Levita (Barnaba), un membro della corte di Erode (Manaem) e un uomo di colore (Simeone detto Niger).

In Romani Paolo si rivolge ad una congregazione che era innegabilmente composta da persone di varie etnie, entrambe ebree e greche (Rom. 7:1; 11:13). Paolo li implora di vivere insieme nell’amore a motivo del vangelo e di sacrificare i loro propri desideri per il bene degli altri (Rom. 13:8-10; 14:1-23). Qui osserviamo che il vangelo ha delle conseguenze non soltanto sulla salvezza del singolo individuo ma anche riguardo la santificazione collettiva – i credenti devono imparare a vivere assieme a chi è diverso da loro seguendo l’esempio di Cristo e tenendo gli altri in più elevata considerazione rispetto a se stessi.

In I Corinzi, scrivendo ad una comunità di membri di diversa provenienza, Paolo afferma la loro unità in Cristo e li esorta a ricercare ciascuno il vantaggio del prossimo e a mostrare sensibilità rispetto alle coscienze dei fratelli più deboli (I Cor. 10:23-33; 12:12-13). In entrambi questi esempi il tema della separazione delle chiese a seconda dei loro tratti omogenei rimane completamente estraneo al pensiero di Paolo. Considerazioni “strategiche” per una presenza più efficace o per far sentire le persone più a loro agio non hanno mai la precedenza sulla vita in comunione in Gesù Cristo. Piuttosto la certezza che i credenti sono una nuova razza umana in Cristo dirige l’unità cristiana all’interno della chiesa perché i credenti si amano l’un l’altro semplicemente come Cristo li ha amati. Paolo afferma dunque che la variegata saggezza e gloria di Dio si manifesta tramite l’unità delle diverse persone all’interno della chiesa (Ef. 3:1-10).

Inoltre la chiesa primitiva infrangeva radicalmente le divisioni di classi sociali ed economiche. Paolo sovvertiva nettamente l’ordine sociale della schiavitù esortando gli schiavi e i padroni ad essere in comunione assieme come fratelli in Cristo in un’unica comunità (I Cor. 7:17-24; Fil. 8-16). La fede in Cristo annulla lo status sociale in quanto è un limite alla fratellanza. Allo stesso modo Giacomo ordina che non ci siano parzialità o trattamenti di favore nei riguardi dei ricchi. Giacomo da per assodato che le persone ricche e i poveri debbano stare nell’unità della comunione fraterna, piuttosto che essere separate in unità omogenee in base a dei tratti socio-economici (Giac. 2:1-9). Inoltre il Nuovo Testamento ci mostra che le chiese erano “multi-generazionali”, composte sia dai giovani che dagli anziani i quali vivevano nella comunione fraterna, nell’unità e nel servizio auto-sacrificale (I Tim. 4:12; 5:1-16; Tito 2:1-8; I Giov. 2:12-14).

Il modello apostolico delle comunità multi-etniche eterogenee non si limita al Nuovo Testamento ma è supportato anche dalle fonti storiche dei primi cristiani. Come dice David Smith: “Era precisamente la natura multi-etnica eterogenea della chiesa a produrre un impatto sul mondo sottoposto a divisioni dei romani e a condurre alla crescita del movimento cristiano”.[6] Mentre l’omogeneità nelle chiese sostanzialmente rafforza lo status quo della società, la testimonianza biblica ci mostra che il vangelo abbatte e mette in comunione barriere etniche, sociali, economiche e culturali in modi mai visti in precedenza.

LA POLEMICA DEL NUOVO TESTAMENTO CONTRO L’ETNOCENTRISMO

Un’altra motivazione per cui l’omogeneità si muove in direzione contraria rispetto al Nuovo Testamento è che promuove e rafforza una mentalità etnocentrica. In tutto il Nuovo Testamento si osserva un attacco all’etnocentrismo, e di conseguenza, un mandato rivolto a tutti i credenti provenienti da differenti contesti etnici ad accettarsi amorevolmente l’un l’altro e a vivere insieme in armonia all’interno delle chiese locali.[7] Paolo è risoluto nell’insistere che gli ebrei (gli giudei) e i gentili (gli stranieri) sono stati riconciliati con Dio mediante il sangue di Gesù Cristo, perché in Cristo: “Non c’è greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.” (Col. 3:11). Cristo ha abbattuto il “muro separatore dell’ostilità” e riconciliato gli ebrei e i gentili con Dio “in un corpo unico mediante la sua croce” (Ef. 2:14-16). I credenti sono parte della una nuova creazione di Dio, loro che un tempo erano tutti peccatori in Adamo, ma che adesso sono diventati una nuova razza umana in Cristo.

La questione è illustrata più chiaramente in Galati 2, nel rimprovero di Paolo a Pietro per la sua separazione dai gentili (Gal. 2:11-16). Pietro, assieme ad altri ebrei cristiani della Galazia, stava reagendo come fosse mosso da timore verso gli ebrei, i quali si sarebbero scandalizzati nel dover mangiare insieme ai gentili. Ma Paolo insiste nel sostenere che questa specie di separazione è un affronto al vangelo stesso (Gal. 2:15-21). Qui l’approvazione dei gentili – coloro che provengono da un gruppo etnico differente – come membri della fratellanza all’interno della famiglia di Dio nel condividere lo stesso pasto in comunione fraterna ha la priorità rispetto al desiderio pragmatico di evitare di offendere gli altri.

Allo stesso modo nei Romani Paolo attacca l’etnocentrismo alla radice. Paolo rivendica la depravazione umana e il potere del vangelo per la salvezza nell’atto di giustificazione di Dio rivolto ad entrambi gli ebrei e i gentili (Rom. 1-3). Tutti hanno peccato e sono stati esclusi dalla gloria di Dio e vengono giustificati per grazia mediante la fede in Cristo (Rom. 3:21-26). Tutti divengono successori di Abramo credendo nel Dio che giustifica i non credenti (Rom. 4). Tutti sono condannati da Adamo e tutti vengono giustificati in Cristo (Rom. 5:12-21). Paolo mette in guardia ebrei e gentili dal divenire orgogliosi, riconoscendo piuttosto la grazia di Dio rivolta ad entrambi i popoli (Rom. 2:17-29; Rom. 11:17-24). Gli scritti tratti dai Romani indicano che Paolo stava scrivendo, in modo quasi del tutto certo, ad una congregazione eterogenea esortando a mettere da parte l’orgoglio razziale e a vivere insieme nell’unità cristiana.

La polemica contro l’etnocentrismo non si limita al solo Paolo; pervade in ugual misura tutto il vangelo. Gesù attacca l’orgoglio etnocentrico dei farisei paragonandoli ai gentili, agli esattori delle tasse e ai peccatori. Il vangelo insegna che la cittadinanza nel regno di Dio si ottiene attraverso la fede in Cristo piuttosto che attraverso l’identità etnica.[8] La chiamata al ravvedimento include una chiamata al ravvedimento dall’orgoglio etnico e razziale. Come sviluppato da John Piper: “La fede in Gesù Cristo abbatte l’etnicità”.[9] Piper cita numerosi esempi riguardo a questo tema nei vangeli: l’elogio della fede del centurione (Mat. 8:5-13), la storia del buon samaritano (Luca 10:33), la guarigione dei dieci lebbrosi, dei quali soltanto lo straniero era ritornato per ringraziare (Luca 17:16), la guarigione della figlia della sirofenicia (Marco 7:26), la scacciata dal tempio (Marco 11:17). Ovviamente Gesù non si preoccupava di offendere l’orgoglio etnocentrico dei farisei.

Ora, per chiarire, i sostenitori del “principio dell’unità omogenea” affermano di non voler promuovere l’orgoglio etnocentrico nei cristiani, ma piuttosto dicono che le chiese omogenee siao più sensibili a livello culturale e accoglienti verso i non credenti che potrebbero sentirsi a disagio nell’attraversamento delle barriere culturali. In altre parole i difensori dell’omogeneità credono che sia più strategico rimuovere le barriere culturali dal vangelo fondando delle chiese monoetniche e monoculturali. E’ comunque ingenuo e troppo ottimista pensare che i peccatori che possiedono un’intrinseca disposizione verso il pregiudizio etnocentrico andranno in qualche modo a superarlo senza essere chiamati a vivere in comunità assieme chi è diverso da loro.[10] L’evidenza del Nuovo Testamento indica che Gesù e gli apostoli non accolsero mai l’etnocentrismo dei non credenti, ma piuttosto integra la chiamata al ravvedimento all’etnocentrismo e la chiamata ad accogliere gli “altri” come parte integrante del messaggio dell’evangelo. Mentre il “principio dell’unità omogenea” si concentra sul cercare di attrarre le persone senza offendere le loro sensibilità etnocentriche, l’approccio di Gesù è totalmente differente – Cristo pone la scure alla radice dell’orgoglio etnico.[11]

LE CHIESE DEL NUOVO TESTAMENTO ERANO “MONOETNICHE”?

Donald McGavran, il padre del movimento di crescita della chiesa che formulò il “principio dell’unità omogenea” affermò che “le comunità del Nuovo Testamento erano straordinariamente monoetniche”.[12] Mc Gavran argomentò che sotto l’influenza dello Spirito Santo gli apostoli procedettero secondo le caratteristiche comuni delle unità omogenee, raggiungendo in primo luogo gli ebrei, per far crescere la chiesa: “Fintanto che gli ebrei potevano diventare cristiani mediante il giudaismo la chiesa poteva e crebbe in maniera sorprendente tra gli ebrei … questi, divenuti cristiani senza sinagoga, potevano farlo senza barriere razziali e di classe.”[13]

Quindi naturalmente dobbiamo porci la questione se questa sia una lettura fedele del Nuovo Testamento. Personalmente sostengo che la lettura delle prove di McGavran è alterata perché ha sottovalutato il modo in cui Luca mostra la storia della salvezza nel progressivo evolversi del libro degli Atti.[14] Gli apostoli non erano guidati da alcun tipo di “principio dell’unità omogenea” – ciò è palesemente manifesto nella diversità culturale e linguistica tra gli ebrei del giorno della pentecoste e nella natura eterogenea delle comunità fondate dopo che i gentili furono introdotti nella chiesa. Luca dipinge l’anticipo della missione di chiesa secondo le direttrici storico-salvifica negli Atti. Il pensiero di Luca è che il vangelo, proclamato dagli apostoli e alimentato dallo Spirito Santo, attraversa delle barriere insormontabili quando il popolo di Dio è ricostituito attorno al Cristo risorto. Quindi Donald McGavran e il movimento di crescita della chiesa hanno fatto riferimento ad un’erronea lettura delle Scritture per sostenere l’omogeneità mediante l’imposizione sul testo di una struttura pragmatica prevenuta.

CONCLUSIONE

Il modello apostolico della chiesa nel Nuovo Testamento suggerisce che, quando è possibile, le chiese non dovrebbero essere fondate o suddivise in base a linee comuni di etnia, cultura, classe, età, o a qualsiasi affinità di gruppo. In alcuni casi le differenze linguistiche potrebbero comportare la necessità di separare le chiese. Ma anche in questi casi, se esiste una lingua franca nella quale le persone possono comunicare, le differenze linguistiche potrebbero non richiedere una separazione.

La gloria di Cristo è decisamente più visibile quando le persone straniere osservano l’amore e l’unità interculturali e plasmati dalla croce che i credenti di varie provenienze condividono l’uno con l’altro. Un desiderio pragmatico di rapida moltiplicazione e crescita delle chiese non dovrebbe portarci a compromettere l’unità che Cristo ha acquistato con il suo sangue. René Padilla lo chiarisce bene:

Potrebbe essere certo che “agli uomini piace diventare cristiani senza superare barriere razziali, linguistiche o di classe” ma questo è irrilevante. L’appartenenza al corpo di Cristo non è una questione di piacere o dispiacere, è invece un discorso di inclusione nella nuova razza facente capo alla Signoria di Cristo. Che a qualcuno piaccia oppure no, lo stesso atto che riconcilia una persona con Dio allo stesso tempo introduce quella persona all’interno di una comunità dove le persone trovano la loro identità in Cristo Gesù anziché nella loro razza, cultura, classe sociale o sesso, di conseguenza divengono riconciliati l’uno con l’altro.[15]

Sono contrario alla crescita rapida e alla moltiplicazione? Assolutamente no! Anch’io desidero fortemente vedere moltitudini di gruppi di persone raggiungere Cristo. Ma chiedo ai lavoratori del vangelo di tenere presente che in nessun punto nel Nuovo Testamento ci viene ordinato di segregare le chiese in gruppi di persone. Come abbiamo osservato, le prove della Scrittura puntano esattamente nella direzione opposta – persone di differenti tribù, lingue e nazioni sono trasformate nel popolo unico di Dio per adorare Dio insieme in comunione fraterna e armonia come un regno di sacerdoti per il nostro Dio. Possa la chiesa in America continuare ad operare per la riconciliazione razziale, mentre impariamo a prendere atto che in Cristo non esiste “negro” o “Ku Klux Klan”. Allo stesso modo siamo in grado di riconoscere che in Cristo non c’è distinzione tra “Bramino”, “Dalit”, “Tutsi” o “Hutu” [minoranze etniche, nda]. Possa la nostra unità riflettersi nelle composizioni demografiche delle nostre congregazioni come un’immagine della variegata gloria di Dio, che ci ha riconciliati in lui mediante la croce del nostro Signore Gesù Cristo (Efes. 3:10). Possa egli ricevere l’onore e la gloria di cui è degno!

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[1] Questo articolo include numerosi estratti modificati e revisionati dal prossimo articolo dell’autore: “Caste and Church growth: An Assessment of Donald McGavran’s Church Growth Principles from An Indian Perspective”, The Southern Baptist Journal of Missions and Evangelism (in via di pubblicazione).

[2] Donald A. McGavran: Understanding Church Growth (Grand Rapids, MI Eerdmans, 1970), 190-211.

[3] Certamente non mi sto riferendo ai contesti monoetnici, come le regioni rurali o anche i sobborghi americani, dove la demografia del contesto è formata in maniera predominante da una cultura/etnia, per cui le chiese monoetniche sono inevitabili. Mi sto riferendo specificamente ai contesti nei quali è rappresentata più di una cultura/etnia. Anche nei contesti monoetnici, comunque, non credo che le chiese dovrebbero essere fondate in base a dei tratti omogenei connessi all’età, la classe o l’affinità.

[4] Si veda l’incisivo criticismo e la meticolosa confutazione del principio dell’unità omogenea di McGavran del teologo dell’America Latina René Padilla: “The Unity of the Church and the Homogeneous Unit Principle”, International Bulletin of Missionary Research 6 (1981), 23-30. Buona parte della mia disamina deve molto al persuasivo e penetrante esame dell’evidenza biblica.

[5] David Smith: “The Church Growth Principles of Donald McGavran”, Transformation 2 (1985), 27.

[6] Ibid., 28. Cf. Michael Green, Evangelism in the Early Church, reved. (Gran Rapids, MI, William B. Eerdmans, 2004).

[7] Una rinnovata enfasi sulla polemica del NT nei confronti dell’etnocentrismo è stata una dei contributi più utili (nonostante altri problemi) della cosiddetta “Nuova prospettiva in Paolo”. Si veda per esempio, N. T. Wright, Paul and the Faithfulness of God, vol. 2 (Minneapolis, Fortress Press, 2013), 774-1038.

[8] Si veda l’eccellente discussione di John Piper in Bloodlines, 115-27.

[9] Ibid., 118.

[10] Questo è tristemente confermato dalla mia personale esperienza in numerose congregazioni monoetniche in tutto il mondo, in ugual modo dalle dolorose esperienze dei miei amici nell’opera del ministero pastorale in India. Per esempio, contravvenendo direttamente a II Corinzi 6:14-18 le persone preferiscono il matrimonio con dei non credenti della stessa etnia/gruppo di casta rispetto al matrimonio con credenti di altri gruppi etnici. A volte, quando due credenti si amano e desiderano sposarsi oltrepassando le caste o le identità razziali, il pregiudizio etnocentrico si fa sentire brutalmente nel momento in cui le loro famiglie dichiarate cristiane negano tale matrimonio multirazziale. Apparentemente il “principio dell’unità omogenea” ha generato e rafforzato un peccaminoso pregiudizio etnocentrico in un popolo che dichiara di conoscere Cristo.

[11] Molti sostenitori dell’omogeneità sostengono che non dovrebbe essere delineato un parallelo tra la separazione giudei-gentili e le moderne separazioni razziali, etnolinguistiche e culturali su quattro aspetti: (1) “giudeo” e “gentile” non sono fondamentalmente termini etnici; (2) la divisione tra giudei e gentili era radicata nella Legge, nonostante le moderne divisioni etniche; (3) la distanza culturale tra i giudei e i gentili ai tempi del NT non erano grandi quanto la distanza culturale tra le etnie di oggi e (4) i giudei lottarono per accettare la salvezza dei gentili, cosa che non si verifica nel panorama cristiano attuale. Richard W. Hardison, “A Theological Critique of the Multi-Ethnic Church Movement: 2000-2013” (Ph.D. diss., The Southern Baptist Theological Seminary, 2014), 117. In primo luogo, è vero che “giudeo” e “gentile” non erano fondamentalmente delle distinzioni di etnia, ma distinzioni primariamente religiose radicate nel patto della legge. Tuttavia, l’ostilità tra giudei e gentili era qualcosa di più di meramente religioso; si estendeva alla cultura, al linguaggio e l’etnicità. Il concetto secondo cui i giudei e i gentili non condividevano un’ampia distanza culturale è semplicemente sbagliato, come suggerito da qualsiasi ricerca di letteratura dal Secondo tempio del giudaismo. Infine, è vero che gli ebrei hanno difficoltà ad accettare la salvezza dei gentili, cosa che non si verifica oggi, ma l’etnocentrismo dei giudei è parallelo all’etnocentrismo di ogni essere umano di ogni tempo, semplicemente perché siamo individui decaduti che faticano ad accettare e vivere in comunità con chi è diverso rispetto a loro. Perciò, nonostante ci siano molti punti di discontinuità tra la separazione giudei-gentili e le moderne divisioni etnico-culturali, ci sono sufficienti aspetti di continuità che garantiscono il parallelo. Inoltre, il Nuovo Testamento estende la chiamata all’unità oltre a “giudeo” e “gentile” per includere categorie come “barbaro” e “sciita”, che sono categorie etnolinguistiche (Col. 3:11). Nel Nuovo Testamento l’unità in Cristo abbatte ogni altra questione di identità e la chiamata ad abbracciare “l’altro” sorpassa tutte le categorie di “diversità” e prende forma sotto forma di vita comunitaria nella chiesa locale.

[12] Donald A. McGavran, “The Priority of Ethnicity,” Evangelical Missions Quarterly 19 (1983), 15.

[13] Donald A. McGavran, Understanding Church Growth (Grand Rapids, MI: Eerdmans, 1970), 202.

[14] Come fa notare Padilla: “la testimonianza di Luca, tuttavia, non dà fondamento alla tesi secondo cui gli apostoli promossero volontariamente la formazione di ‘congregazioni a razza unica’ e tollerarono i pregiudizi guidaici nei confronti dei gentili in nome della crescita numerica di chiesa. Per argomentare il contrario, è necessario avvicinarsi alle Scritture con un’idea preconcetta (1) che gli apostoli condivisero la teoria moderna secondo cui il pregiudizio di razza ‘può e dovrebbe essere fatto in sostegno alla cristianizzazione’ e (2) che il moltiplicarsi della chiesa richiede indistintamente un adattamento al principio dell’unità omogenea. Senza questo assunto ingiustificato si potrebbe difficilmente non comprendere la questione sollevata dagli Atti secondo cui l’ampliamento del vangelo ai gentili fu un passaggio così difficile per la chiesa di Gerusalemme che si verificò solo con l’aiuto di visioni e ordini (8:26ss.; 10:1-16) o sotto la pressione della persecuzione (8:1ss.; 11:19-20). Non viene mai suggerito che i cristiani giudei predicavano il vangelo a ‘nessuno al di fuori dei giudei’ a causa di motivazioni strategiche.” Padilla, “Unity of the Church,” 25. (enfasi originale).

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