Roma (NEV), 27 febbraio 2024 – L’intervento di Paolo Naso andato in onda nella rubrica Essere chiesa insieme su Rai Radio1 domenica 25 febbraio 2024, a chiusura del culto evangelico.
Si chiamavano Luigi, Taufik, Mohamed, Muhamad, Buzekhri i cinque operai morti a Firenze, in uno dei più gravi incidenti sul lavoro degli ultimi mesi. Uno di loro era italiano, gli atri maghrebini, provenienti da Tunisia e Marocco. Lavoravano in Toscana ma vivevano in Lombardia, a Palazzolo sull’Oglio, in provincia di Brescia. Il più giovane aveva 24 anni, il più anziano 56. Ogni venerdì tornavano a casa per ripartire la domenica sera. Al momento non sappiamo con certezza se gli immigrati fossero tutti regolari e, onestamente, conta assai poco. Quel che importa è che c’era bisogno del loro lavoro e qualcuno li aveva ingaggiati. E’ il solito paradosso: l’Italia ha bisogno di forza lavoro ma non vuole gli immigrati, cerca braccia ma respinge le persone.
Oggi è il tempo del cordoglio e della denuncia. Durerà qualche giorno ancora e poi tutto riprenderà come prima.
Intanto, però, il lavoro è tornato al centro del dibattito. Ed è una buona cosa. C’è voluta la strage di cinque operai perché istituzioni, forze politiche e semplici cittadini riconoscessero quello che la Costituzione italiana afferma da oltre sessanta anni: il lavoro è al centro della vita di ogni comunità democratica. Gli individui lavorano per vivere dignitosamente e progredire socialmente. Ma si lavora anche per la crescita sociale, economica e culturale del Paese. Il lavoro, insomma, è una leva per affermare allo stesso tempo la dignità delle persone e costruire il bene comune.
Era questo il sogno di coloro che immaginarono e scrissero la Costituzione, ed ancora oggi è questa la visione di milioni di lavoratori che ogni giorno entrano in una fabbrica, in una scuola, in uno studio tecnico o in un campo agricolo. Che salgono su una nave o che aprono un negozio.
E’ una visione, un progetto sociale e culturale: il lavoro che restituisce dignità e produce redditi, che non inquina e che fa crescere la qualità della vita individuale e collettiva.
Così è stato per decenni e in certa misura è ancora oggi. Poi però ci sono le tragedie sul lavoro, gli uomini e le donne che muoiono sotto una trave di cemento armato o in seguito a un incendio; quelli che muoiono schiacciati dalla fatica in una serra o che finiscono sotto un tir mentre consegnano una pizza a domicilio.
Il lavoro che emancipa e quello che uccide, quello che ti da speranza e quello che ti aliena in un call center o dietro un monitor piazzato in capannone anonimo.
Ma, mentre doverosamente si discute di lavoro e di sicurezza nei cantieri, si tende a trascurare il fatto che quattro dei cinque operai morti a Firenze fossero immigrati. Certo, la tragedia di Novoli non fa distinzione del colore della pelle, né della nazionalità del passaporto, della lingua o della religione. I morti sul lavoro sono morti e basta. Giusto, ma allora perché, da vivi, i migranti sono “i clandestini” o gli “irregolari”? Perché, quando sono vivi, l’Italia fatica a riconoscere l’importanza del loro lavoro e il contributo allo sviluppo alla società italiana, all’economia nazionale, al bene comune?
Di fronte al sistema produttivo italiano ci sono enormi sfide: la delocalizzazione che sposta i luoghi del lavoro dove la manodopera è meno costosa; l’intelligenza artificiale che sostituisce la forza lavoro umana; la scelta drammatica tra il lavoro che inquina e la mancanza di lavoro che affama. Ma a questi se ne aggiungono almeno altri due, e sono prioritari: il diritto alla sicurezza e quello all’integrazione dei lavoratori migranti, al riconoscimento dei loro diritti, fino alla cittadinanza.
Il diritto alla sicurezza. Nel corso dello scorso anno sono state più di mille le vittime del lavoro, 3 morti al giorno: una strage silenziosa, ricoperta da qualche onda di emotività e di compassione ma che, nella sostanza, non cambia le cose ed espone altri operai ed altre operaie a rischi mortali. Perché i controlli sono così scarsi? Perché un lavoro può essere subappaltato a ditte sconosciute o non affidabili?
E poi c’è la questione dell’integrazione e del riconoscimento dei diritti dei lavoratori migranti: degli oltre mille morti sul lavoro del 2023, il 20% erano migranti. Ed ancora, l’indice di mortalità sul lavoro per i migranti è doppio che per gli italiani. Rischiano di più, muoiono di più. Eppure, godono di minori di diritti, spesso costretti a vivere in una zona grigia di irregolarità e di precarietà determinata da leggi con riconoscono loro il diritto alla permanenza legale e sicura in Italia né, tantomeno, alla cittadinanza.
Nella tradizione protestante il lavoro è sempre stato un valore, lo strumento attraverso il quale ogni uomo e ogni donna rispondevano alla vocazione di Dio migliorando la propria condizione e quella della comunità che li circondava. Ne derivava un’etica del lavoro fatta di responsabilità, impegno, rischio personale. Oggi le sfide sono anche altre, e anche per il mondo protestante, l’etica del lavoro si costruisce attorno ai principi della dignità di chi lavora – italiani o immigrati – la sicurezza, la sostenibilità delle produzioni, la tutela dell’ambiente. Se c’è una lezione che possiamo trarre della tragedia di Firenze, è questa.
https://www.nev.it/nev/2024/02/27/ripensare-letica-del-lavoro/
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