Quali rapporti hanno con il denaro i credenti delle diverse confessioni? E che cosa ne dicono i testi sacri? Giro d’orizzonte sulle prescrizioni di ieri e sulle pratiche di oggi . (Virginie Larousse) Avvicinandosi alla Terra promessa, Mosè mette in guardia il suo popolo con queste parole: “Davvero voi sapete come abbiamo abitato nella terra d’Egitto, come siamo passati in mezzo alle nazioni che avete attraversato.
Avete visto i loro abomini e gli idoli di legno, di pietra, d’argento e d’oro, che sono presso di loro” (Deuteronomio 29, 15-16). Il messaggio sembra chiaro: la ricchezza allontana da Dio.
Religioni e denaro
Le religioni, monoteiste o no, sono risolutamente ostili al denaro? La cosa non è così sicura. Di fatto, a questo riguardo, hanno sviluppato spesso posizioni variegate – e talvolta non prive di ambiguità.
Contrariamente ad un’idea solidamente fissata (soprattutto nei paesi di forte tradizione cattolica), le religioni non gettano l’anatema sul denaro. Al contrario. Nella Bibbia ebraica, la ricchezza è segno della benedizione di Dio, come testimonia la storia dei patriarchi: Abramo, ci dice la Genesi (13,2) era “molto ricco in bestiame, argento e oro”. Isacco miete il centuplo e “divenne ricco e crebbe tanto in ricchezze fino a divenire ricchissimo” (Genesi 26,13). L’abbondanza è una dimostrazione della generosità di Dio. E se si vuole credere alla parabola dei talenti (Matteo 25, 14-30), Gesù non è contrario all’arricchimento, poiché vi si legge l’elogio del servo che è riuscito a far fruttare il denaro che il suo padrone gli aveva affidato.
Sulla scia di questi fratelli maggiori monoteisti, l’islam è ben lungi dal condannare il profitto – cosa che sarebbe stata per lo meno problematica nel contesto del fiorente commercio che si svolgeva in Arabia all’epoca di Maometto. Del resto, il Profeta è stato lui stesso un commerciante valente in affari e ha sposato una ricca vedova, Kadija. “Dio concede la sua misericordia all’uomo generoso nei suoi acquisti, generoso nelle sue vendite e generoso nelle sue transazioni” afferma un hadith (gli hadith designano parole non coraniche attribuite al Profeta, che faceva lui stesso una netta distinzione tra le sue dichiarazioni personali e quelle del Corano, ndr.).
Diventare ricchi
Anche le saggezze orientali sviluppano un discorso positivo sulla ricchezza, per ragioni evidentemente diverse. Nell’induismo e nel buddismo, non è alla misericordia di un Dio trascendente – concetto a loro estraneo – che è dovuto il possesso dei beni, ma all’effetto di un buon karma: l’individuo che si è comportato bene nelle sue vite anteriori ne ricava un beneficio nella sua esistenza attuale. Agli occhi degli indù, guadagnare denaro non è solo legittimo, ma è anche un dovere per chi vuole fondare una famiglia. Inoltre, l’induismo sviluppa l’idea che gli uomini non possono vivere in armonia se non rispettano il dharma, l’insieme delle leggi naturali che variano a seconda del posto che l’individuo occupa nella società. Ad esempio, il dharma del soldato differisce da quello del commerciante. Per l’uno si tratta di essere un guerriero coraggioso; per l’altro, di dirigere prosperi affari, cosa di cui non deve assolutamente arrossire. Nelle religioni cinesi, non c’è la nozione di karma: l’opulenza risulta dalla benedizione degli antichi sui loro fortunati discendenti.
Del resto è in Cina che il rapporto col denaro, che è sempre stato considerato come una preoccupazione naturale, è particolarmente libero da complessi, al punto che l’effigie del dio della ricchezza, Cai Shen, è messa ovunque, dai templi ai ristoranti, come sui biglietti di auguri per il Nuovo Anno – periodo in cui si augura ai propri interlocutori: “Felicitazioni, possiate diventare ricco quest’anno!”
Mammona d’ingiustizia
Ciò significa che le tradizioni religiose fanno l’elogio dei ricchi? Assolutamente no! Il potenziale mortifero del denaro vi viene fermamente denunciato. Generatore di ingiustizia, il denaro crea rancore e gelosia, divide gli uomini. Giuda non ha forse tradito Gesù per trenta maledetti denari? Peggio, il denaro diventa per alcuni una preoccupazione ossessiva: “Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti… la sazietà del ricco non lo lascia dormire” (Qoèlet 5,9-11).
È un’analisi che fa eco a quella di Buddha, che vede nel desiderio la causa di ogni sofferenza, e invita colui che ricerca il Risveglio a dominare la propria avidità. “La ricchezza è la rovina dell’uomo senza discernimento, non quella del saggio in cerca di assoluto”, riassume (Dhammapada, XXIV). Ora, se esiste un desiderio che si rivela insaziabile, è proprio quello della ricerca sfrenata dei beni.
Gesù ha spinto al parossismo questo avvertimento: “Nessuno può servire due padroni. Voi non potete servire Dio e il Denaro” (Matteo 6,24). Quel Denaro, Gesù lo personifica e gli dà un nome proprio: è il “Mammona dell’ingiustizia” (Luca 16,11) – una parola che deriva dalla radice ebraica âman, che indica la stabilità, la fermezza. Perché il denaro appare, di primo acchito, come qualcosa in cui si può avere fiducia. Viene a colmare la nostra sensazione di mancanza, la nostra paura viscerale della morte. Il denaro è l’assicurazione di una vita comoda, libera da problemi. Almeno in apparenza, come mostra una parabola del Vangelo di Luca (12,16-20): “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. […] disse a se stesso: ‘Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!’. Ma Dio gli disse: ‘Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?’”. Mammona non è che un idolo che non mantiene le sue promesse. Davanti alla morte, non sarà di alcun aiuto. “È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!”, dichiara Gesù (Luca 18,25).
E il Corano avverte: “Sventura al calunniatore acerbo che ha accumulato una fortuna e l’ha contata e ricontata! Pensa che la sua fortuna l’abbia reso immortale. Sarà precipitato nel Fuoco di Dio” (sura 104, 1-6).
La povertà è una virtù?
Se coloro che risparmiano all’eccesso non godono di una reputazione particolarmente luminosa, la povertà viene allora elevata a virtù? Nell’induismo, il credente è invitato a rinunciare ad ogni bene materiale nella quarta età della vita (la vecchiaia): si ritiene che debba lasciare la sua casa e chiedere il cibo in elemosina. E presso i sufi africani, la povertà è la ricchezza suprema, a condizione di aver liberamente acconsentito a seguire quella via. La tradizione cattolica ha sviluppato l’idea che il vero cristiano è povero, basandosi su una interpretazione letterale del discorso delle beatitudini: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Matteo 5,3). Certi ordini religiosi – francescani e domenicani, nello specifico – fanno della povertà un ideale. Una visione non condivisa dai protestanti, per i quali è moralmente onorevole essere ricchi. La tradizione islamica va ancora oltre: compiacersi della spoliazione è vicino alla miscredenza ed è suscettibile di creare tensioni sociali, poiché il povero può diventare geloso del ricco. Anche il Buddha percepisce la povertà come immorale: il sutra del ruggito del leone racconta la storia di un monarca che smise di donare ai poveri, trascinando la popolazione a commettere furti e crimini per la propria sussistenza. Più in generale, la miseria genera sofferenza. Ricordiamo che il Buddha praticò egli stesso un ascetismo spinto prima di conoscere il Risveglio. Rendendosi conto che tali pratiche austere non gli avevano insegnato nulla, vi mise fine e preconizzò una via mediana, consistente nel rifiutare tanto l’eccesso che l’austerità abusiva.
Le religioni invitano quindi l’uomo a relativizzare l’importanza accordata al denaro, a “profanarlo”, per riprendere l’espressione del teologo protestante francese Jacques Ellul, cioè a spogliarlo del carattere sacro di cui certi lo hanno rivestito. Anche se è necessario per vivere, non deve diventare fine a se stesso.
Bisogna “rendere a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”, insegna Gesù (Marco 12,17). La moneta è coniata con l’immagine di Cesare, di conseguenza è di sua proprietà; l’uomo, come dice la Genesi, è ad immagine di Dio… e quindi gli appartiene. Così facendo, il Nazareno fa vacillare il potere del principe, eminentemente fondato sul denaro. Dio è padrone unico del mondo, il solo in cui l’uomo debba porre la sua fiducia: “Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre!” (Matteo 6,26). Un messaggio che Maometto rafforza presentando Dio come l’unico proprietario di “tutto ciò che è nei cieli e sulla terra” (sura 53, 42-48). I beni non appartengono mai agli uomini: essi ne hanno solo l’usufrutto. Benché le saggezze cinesi non sviluppino la visione di un Dio onnipotente, esse incitano ugualmente alla giusta misura, a quella “via di Mezzo” così cara al taoismo: “Se comprendi che hai a sufficienza, sei davvero ricco”, scrive Lao Tzu nel Tao-Te-Ching (aforisma 33).
Il prestito a interesse
Di conseguenza, non è il denaro, ma l’amore per il denaro, che le religioni condannano: la tesaurizzazione, l’eccesso, lo spreco o l’uso immorale della ricchezza. Questo spiega perché il problema del prestito a interesse – che permette al ricco di diventarlo ancor di più… senza far niente – ha tormentato molto presto gli esegeti. “Il denaro dato ad usura non smette di lavorare, produce incessantemente altro denaro. È un lavoratore instancabile, che non si interrompe né le domeniche né i giorni festivi, che non smette di lavorare quando dorme”, dice una raccolta anonima del 13. secolo. Nella Bibbia, solo Dio può creare dal nulla. L’usura è quindi percepita come una pretesa dell’uomo di creare valore a partire dal nulla. Il Deuteronomio (23,20-21) insegna come comportarsi: “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse […] Allo straniero potrai prestare a interesse”. In questo modo, gli ebrei sono stati in grado di prestare denaro in un’epoca in cui l’usura era severamente vietata sia ai cristiani che ai musulmani. Agli occhi dei pensatori cattolici, non si può fare commercio del tempo, che appartiene solo a Dio.
Nell’islam, l’usura sarebbe stata proibita da Dio stesso: “Dio ha permesso la vendita e ha proibito l’usura” (sura 2, 275). Del resto, la sharìa proibisce questa pratica, ma proibisce anche di fare transazioni sconnesse dall’economia reale (le banche islamiche non acquisiscono crediti, ma gestiscono averi concreti) o a fini speculativi (da qui la loro reticenza nei confronti del sistema capitalistico) e di investire in attività non etiche (alcol, armamenti, tabacco, gioco).
Mezzi per aggirare la proibizione dell’usura sono certo stati immaginati tanto da parte cattolica che musulmana, ma è il protestante Calvino, nel XVI secolo, che cambierà la situazione. Crescendo nella città molto commerciale di Ginevra, si basa sulla parabola dei talenti (o quella, molto simile, delle monete d’oro nel Vangelo di Luca): “Signore, mi hai dato cinque talenti: eccone altri cinque che ho guadagnato” (Matteo 25,20). Calvino dichiara che in un mondo ideale l’usura dovrebbe essere proibita, ma che del resto occorre venire a patti con la realtà. Di fatto, cattolici e protestanti svilupperanno una visione molto diversa rispetto al denaro, come ha analizzato Max Weber nel suo libro L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Mentre i cattolici si sono mostrati reticenti all’economia di mercato, i secondi l’avrebbero invece accolta plebiscitariamente. Con una riserva, tuttavia: quella dei profitti sproporzionatamente alti. La preoccupazione di moderazione si ritrova nell’induismo, con tanta maggiore acutezza, per cui se colui che riceve in prestito non è in grado di pagare il suo debito, dovrà farlo… nella sua vita futura.
La nobiltà del dono
Il problema, si vede bene, non è tanto avere del denaro, ma farne buon uso. Il denaro non è fatto per essere conservato egoisticamente, deve circolare e servire ai più bisognosi. Ad esempio l’ebraismo, nel Deuteronomio, propone una legislazione sociale estremamente audace, benché sembri che tali prescrizioni siano rimaste lettera morta: l’ultima parte della mietitura deve essere riservata all’immigrato, all’orfano e alla vedova: nell’anno sabbatico, ogni sette anni, i debiti devono essere cancellati. Essere ricchi determina un obbligo di solidarietà che il credente non può dimenticare (del resto l’avarizia fa parte dei sette peccati capitali nel cristianesimo), e che viene a riequilibrare l’effetto potenzialmente nefasto che il denaro può generare nelle relazioni sociali. Questo è il messaggio della storia di Zaccheo nel Nuovo Testamento (Luca 19,1-10). L’uomo, percettore di imposte, ha cattiva reputazione. Ma, con sorpresa della folla e dell’interessato, è a casa sua che Gesù chiede di essere ospitato durante il suo passaggio a Gerico. Il ricco Zaccheo decide allora di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di rimborsare del quadruplo chi era stato leso per colpa sua. Mentre il suo status di persona ricca lo aveva fino a quel momento tagliato fuori dal rapporto con i suoi simili, esso gli permette, facendone buon uso, di creare legame sociale. “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”, consiglia Gesù (Luca 16,9). Una raccomandazione che ha perfino forza di legge nell’islam, in cui lo zakat (l’elemosina legale) fa parte dei cinque pilastri della fede – gli obblighi di ogni musulmano. Essa permette di purificare la ricchezza favorendo una giustizia sociale.
La generosità svolge un ruolo fondamentale anche nelle religioni non monoteiste: l’induismo e il buddismo la considerano portatrice di buon karma. Secondo il Buddha, il denaro non è negativo in quanto tale. È l’uso che se ne fa che lo trasformerà in fonte di karma buono o cattivo: “La grande ricchezza che viene correttamente usata non è destinata a perdersi, ma ad essere consumata per la felicità. L’acqua fresca che si trova in una regione selvaggia, nessuno se ne avvicina per bere, quell’acqua scorre invano, inutilmente. Simile è la ricchezza ammassata dall’uomo egoista. Non la usa né per sé né per donarla. L’uomo che ha un pensiero forte e che ha accumulato una ricchezza, la consuma e la sua per compiere i suoi doveri. Nutre i suoi genitori e i suoi amici. Lui che ha un cuore nobile, senza colpe, dopo la morte, va alla felicità celeste” (Aputtaka-Sutta). La ridistribuzione delle ricchezze, la nobiltà del dono, costituisce un potente leitmotiv nei testi sacri.
Sorprendente modernità
In fondo, il discorso delle religioni sul denaro spinge ad interrogarsi su questioni fondamentali: che cosa fa di me il denaro? Che senso darò alla mia vita? In maniera più o meno radicale (in maniera forte il cattolicesimo, molto più temperata in Cina), le tradizioni religiose incoraggiano l’uomo a situasi nell’essere e non nell’avere. Insegnano che la vera ricchezza non è (o non è soltanto) materiale. Si dice spesso che le religioni sono superate dalla modernità, portatrici di un messaggio di un’altra epoca. In questo ambito, l’etica da loro proposta risuona di sorprendente modernità. (in “Le Monde des religions” del 22 dicembre 2011; trad. it. finesettimana.org)
Fonte: http://www.voceevangelica.ch/
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