In che modo la resilienza, parola oggi così frequentata, può coordinarsi con gli insegnamenti della Bibbia? Resiliente è l’infinito amore che Dio ha per noi.
Tra le parole scritte a colori su un cartello appeso nella sala della mensa dove pranzo spesso, «resilienza» appare, accucciata tra il misterioso e il minaccioso, come un felino sonnecchiante, ai piedi di un punto esclamativo come un allampanato signore con cravatta – molto probabilmente un «capo» – che serio segnala a chi legge la necessità di fornirsene, di resilienza, e di farne buono quanto ordinato uso.
Quando invece chiedo a mio figlio architetto cosa gli viene in mente se gli dico «resilienza», eccolo fare con le mani il gesto di una molla, anzi mi sembra talmente convinto di un tale innocuo, pacifico significato del termine che per un attimo mi sembra di vedere nei suoi occhi perfino lo sguardo che una molla avrebbe se potesse guardare – ma si sa che gli «scienziati», specie se giovani, sono un po’ a senso unico e non pensano in prima battuta ad altro che al loro mondo.
Capacità di adattamento non servile, come ci ha ricordato Elisabetta Ribet con il suo «Basta» da queste pagine, elasticità dunque dotata di un suo nerbo per poter far fronte ai vari scenari che la vita ti squaderna davanti a volte improvvisi come un camion in contromano dietro a una curva, la resilienza è una dote forse a doppio taglio di cui comunque il nostro tempo, fatto di precarietà intenta a trovare una via per uscire dal tunnel di un passato morto e che non vuole lasciarsi seppellire, indubbiamente ci impone di fare scorta.
Guidando attraverso l’Aurelia da Genova verso Roma, dove per resilienza ho ormai da quasi un anno spostato metà della mia vita lavorativa settimanale, mi dedico a chiedermi in che modo questa parola oggi così frequentata possa coordinarsi con gli insegnamenti della Bibbia; e arrivata all’Argentario, il cuore incapace di non rallegrarsi alla vista dei campi che si allungano verso il mare appena nascosto, mi sembra di poter dire che, anche se è vero che la Bibbia è tutto tranne che un libro a senso unico, mi sento di concludere con ragionevole certezza che Gesù resiliente proprio non era.
Non l’avrebbero descritto così i mercanti intenti a raccogliere la loro mercanzia dalle «cattedre» rovesciate nel tempio, né sua madre e i suoi fratelli, ridotti a solo possibili soggetti di un rapporto parentale costruito non sul vincolo del sangue ma su quello dell’obbedienza al Padre, o i suoi discepoli, serenamente – e radicalmente – invitati ad andarsene se non in grado di ascoltare la sua parola senza scandalizzarsi. Insomma, poca anzi nulla resilienza abitava in Gesù – che se d’altronde ne avesse avuta, avrebbe sbugiardato e demonio sul pinnacolo del Tempio e increduli curiosi spettatori sul Calvario offrendo prova – concreta come solo i miracoli sanno esserlo – del suo essere Dio col chiamar gli angeli a servirlo, o liberandosi sovrano dalla tortura cui si era lasciato sottoporre.
E tuttavia qualcosa mi impedisce di concludere che la resilienza sia davvero del tutto estranea a ciò che come cristiani, vivendo, possiamo o forse addirittura dobbiamo perseguire.
Me lo impediscono i lavoratori chiamati al campo all’ultima ora, eppure pagati secondo contratto come i primi. Me lo impedisce la città di Ninive salvata nonostante la sua disdicevole condotta e nonostante la decisamente contraria opinione di un malmostoso profeta adirato per la misericordia del suo Dio. Mi impedisce, di buttare la resilienza alle ortiche come fosse il disegno della debolezza umana, e dunque della mia debolezza, Gesù che parla con la Samaritana al pozzo, e più di duemila anni dopo perfino un papa che pronuncia, di conseguenza, dignità alla donna: perché in tutti questi testardi tentativi di salvarci, raggiungendoci proprio là dove possiamo ascoltarlo, Dio – la cui Parola dura in eterno – dimostra quanta resilienza c’è nell’amore di cui egli è ricco al punto da volercene versare in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante.
Un malato guarito di sabato, un lebbroso toccato a rendergli nuova la pelle e la dignità; un popolo di dura cervice chiamato a testimoniarlo e infine, e certo non ultima, la vocazione rivolta a noi che per sua grazia crediamo: tutto questo mi rende consapevole che, se Dio è la roccia su cui poggia la ragione stessa della mia vita, io non posso che applicare tutta la resilienza che trovo in me per cercare sempre nuovi modi per ubbidire alla sua volontà – amando lui senza riserve, e gli altri, con la stessa elasticità (spero) dignitosa con cui amo me stessa.
A Torrimpietra, i pini ormai nascosti dal buio illuminato dai fari e dalle luminarie dei centri commerciali di questa nuova città mezza mia sembrano salutarmi, neanche fossi il Carducci con i suoi cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar.
Da quel buio improvviso, e oserei dire divertito da questo guazzabuglio di pensieri, Isaia mi sussurra la sorprendente storia di quel Dio che, padrone di tutto e dunque anche dei suoi pensieri, ci invita «imparate a fare il bene; cercate la giustizia, rialzate l’oppresso, fate giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova! Poi venite, e discutiamo: anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve»: è la storia, immutabile nella Parola che la rende viva ma sempre nuova nella maniera di presentarsi a noi, di questo nostro sorprendente Iddio, così poco resiliente, e contemporaneamente così desideroso di cambiare idea su di noi – come solo chi ama di infinito resiliente amore sa fare.
Giovanna Vernarecci
Fonte: http://www.riforma.it/
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