L’intreccio fra le fedi che convivono in Italia e la libertà di informazione, un dialogo utile in tempi di tensione e lacerazioni.
Raccontare la pluralità delle religioni può essere una sfida, culturale innanzitutto in un paese come l’Italia che si va arricchendo di una molteplicità di fedi sempre più inserite nel tessuto sociale, ma anche per le stesse religioni. Non mancano, abbondanti di dati e statistiche, gli studi di settore, affidati alle mani esperte di storici, sociologi, analisti dei mutamenti in atto sullo scenario di questo primo ventennio del nuovo secolo. Ma se dal piano accademico passiamo a quella vulgata che è la comunicazione di massa, sia essa in rete o no, resta una narrazione parziale, spesso incerta, confusa, inesatta, sbagliata, dannosa.
È noto che in Italia l’analfabetismo religioso è imbarazzante. Un italiano su quattro pensa che la Bibbia sia stata scritta da Mosè e il tasso d’ignoranza aumenta sul protestantesimo, per non dire sull’Islam o sul Buddismo. Già questo dato rende pertinente il percorso che a Torino trova spazio nei corsi di aggiornamento professionale dei giornalisti. La motivazione più banale, ma non meno cogente, è offrire agli operatori dell’informazione l’ABC per orientarsi nel mondo sempre più vasto dei credenti. Ma non c’è solo un problema di linguaggio e neppure di conoscenza. Se pur indispensabili non sono sufficienti. Il sapere non è di per sé garanzia di un pensiero critico e libero da pregiudizi come, attenendoci all’argomento, dovrebbe essere il giornalismo. Non basta sapere che cos’è una moschea o un tempio sikh, avere chiare le differenze tra una messa cattolica e un culto evangelico, perché ne derivi una narrazione priva di tabù e preclusioni e a sua volta stimolatrice di altra conoscenza che si fa incontro con l’altro. E in questo sono inclusi anche gli atei che, per il solo fatto di non credere in Dio, non vuol dire che non abbiano un credo e che non siano portatori dei germi infausti del fanatismo.
Perché l’obiettivo è debellare i dogmi, gli assolutismi indiscutibili che, nel presupposto di avere un primato da esercitare, si coniugano facilmente con altri assolutismi, sul piano politico e dell’ideologia. Anche la scienza ha un fianco scoperto esposto a questa deriva se incapace di avere dubbi, di mettersi in discussione. Nel dibattito pubblico ragionare attorno alle religioni, oggi, nell’Europa in sofferenza del XXI secolo, ha più che mai un senso per capire le comunità che le esprimono, comunità che abitano le nostre città, i nostri quartieri, con le quali interagiamo. Abituati a pensare, per esempio, agli immigrati sempre e solo in termini di disperati portatori di bisogni primari, ci sfugge che praticano a volte la nostra stessa religione, magari vissuta in modo diverso, più pregnante, centrale nelle loro vite. Ci siamo dimenticati che tra i bisogni primari ci può essere la preghiera, l’osservanza delle feste, il culto e quindi avere un luogo dove celebrarlo, la partecipazione in tutti questi momenti della famiglia.
Quanto più il racconto coglie le sfaccettature tanto più favorisce una percezione aderente alla realtà, non stereotipata, quindi, strumentalizzabile. In questo racconto c’entrano i giornalisti, ma anche le loro fonti. Il come si raccontano le religioni è importante, sono corresponsabili dell’immagine riportata su giornali e tivù. Dall’altra parte un numero crescente di giornalisti appartenenti a confessioni religiose sentono il bisogno di promuovere – udite, udite – il pensiero della complessità che non è complicazione. La sfida delle religioni è comunicarsi come attori di umanità vitale, messaggeri di istanze di vita nuova, non di morte e violenza; la sfida del giornalismo e di non farsi prendere dal panico del twitter che stringe e schiaccia gli avvenimenti in immagini e parole a un’unica dimensione, ma di restituire alle opinioni pubbliche la ricchezza multiforme della storia in movimento.
di Emmanuela Banfo | Riforma.it
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