Il referendum del 17 aprile ha mancato il quorum. Alle ore 23, al momento della chiusura delle urne, aveva votato il 32% degli aventi diritto. Ancora lontano, dunque, dal 50% +1 necessario a rendere valido il voto. Ha vinto la battaglia per l’astensionismo, sostenuta questa volta, anche dal premier Matteo Renzi. E ha vinto, indirettamente anche la campagna per il No, dei contrari alla chiusura delle piattaforme estrattive entro le 12 miglia dalla costa. “Hanno vinto i lavoratori”, dichiara il premier, subito dopo la chiusura dei seggi.
Perso il referendum (vinto, se ci poniamo dal punto di vista del No), si inizia a fare un bilancio e a valutarne i costi. Economicamente parlando, è stata una spesa pubblica ingente: circa 300 milioni di euro. Servivano per allestire i 61.562 seggi su tutto il territorio italiano, più la mobilitazione delle forze dell’ordine, la logistica, il materiale di cancelleria, gli scrutatori e la gestione del voto a distanza di quasi 4 milioni di italiani residenti all’estero. Si tratta di 300 milioni di euro di spesa pubblica completamente persi, bruciati. Si poteva prevedere lo spreco? In un certo senso, sì. Infatti, per la prima volta nella storia italiana, questo referendum abrogativo non è nato da una proposta popolare, ma dall’iniziativa di una minoranza di 10 Regioni. Una di queste, l’Abruzzo, ha cambiato idea e si è ritirata dal comitato per il Sì lo scorso gennaio. Dunque 9 élite politiche regionali, rappresentative di una popolazione complessiva 23 milioni di italiani (loro opposizioni regionali comprese), hanno chiamato alle urne 47 milioni di italiani, anche quelli di regioni che non c’entrano nulla con il mare e con le piattaforme marittime. A urne chiuse, è notevole che il quorum non sia stato raggiunto neppure nelle regioni promotrici del referendum (con l’unica eccezione della Basilicata) anche se il costo, ora, è equamente distribuito fra i contribuenti di tutto il Bel Paese. Solo questo sarebbe un punto a favore del federalismo fiscale, se ancora ci fosse qualcuno sensibile a questo messaggio.
I costi politici sono ancora più pesanti, per tutti coloro (e sono tanti) che hanno sostenuto la campagna del Sì. Beppe Grillo, all’indomani del lutto per la morte di Gianroberto Casaleggio, ora deve digerire una grave sconfitta. Il Movimento 5 Stelle aveva investito molto in questa consultazione popolare, per affermarsi come prima forza ecologista del paese. La Lega Nord, che si era accodata alla campagna del Sì, più per dare addosso a Renzi che non per amore di regioni marittime che sono soprattutto al Sud, ora riporta una sconfitta in una battaglia non tipicamente sua. Matteo Salvini si è esposto personalmente, ora ne subisce le conseguenze. Peggio ancora ne esce Forza Italia, che ha condotto una svogliata campagna a favore del Sì (anche qui per ragioni di opposizione a Renzi, più che per convinzione anti-trivelle), ma al momento buono il suo stesso leader Silvio Berlusconi si è astenuto dal voto, senza dare indicazioni. Se già non è chiara l’immagine dell’attuale Forza Italia, d’ora in poi lo sarà ancora meno. Ha perso anche la sinistra “dem”, l’opposizione a Renzi interna al Pd, ha perso Michele Emiliano, ex magistrato e governatore della Puglia, in primissima linea nel promuovere la cause del Sì. Nella sua regione non si è neppure raggiunto il quorum. I costi maggiori li subisce soprattutto l’istituto referendario in sé. Negli ultimi anni, su 8 volte che si è votato, solo in un caso si è raggiunto il quorum, nel 2011, quando la gente andò spinta dall’onda emotiva di un evento lontano dall’Italia: il disastro di Fukushima, che indusse a esprimere un voto contro il nucleare.
Il costo sociale, pagato da tutti, è dovuto però alla sconfitta dell’informazione corretta. E’ raro vedere notizie così contraddittorie, confuse o palesemente false come quelle che sono state diffuse nel corso della campagna referendaria. Si votava per le “trivelle”, quando non c’erano trivellazioni in ballo, contro il petrolio e le sue “lobby”, quando solo una minima parte delle piattaforme in gioco lo estraevano. Si votava convinti di non mettere a rischio posti di lavoro, quando invece il settore impiega direttamente 11mila persone e indirettamente altre 21mila. Ci si è messo anche il cantante Adriano Celentano, a intorbidire un quadro già confuso: il “re degli ignoranti” (così si definiva lui stesso), ha citato il dato implausibile di 22mila bambini che rischierebbero il cancro. A causa dell’estrazione del metano? Si è parlato di “cessione di sovranità nazionale”, quando in ballo erano solo rinnovi di concessioni a piattaforme già esistenti da decenni, alcune anche da 40 anni. Si è parlato e straparlato contro lo sfruttamento delle multinazionali a danno dei mari d’Italia. L’Eni, in effetti, è una multinazionale, ma di proprietà dello Stato italiano. Si è detto che le piattaforme fossero esenti da royalties e che le Regioni non ricavassero alcun beneficio dall’estrazione di idrocarburi. Dimenticando però che, fra royalty, canoni d’esplorazione e produzione, tassazione specifica e imposte sul reddito delle società, le imprese che estraggono le risorse energetiche pagano il 63,9%. Per quanto riguarda le royalties, pari al 7% (per il gas) e al 4% (per il petrolio) sul totale dei ricavi (senza sottrarre i costi, dunque), esse vanno al 55% alle Regioni e al 45% allo Stato.
Il costo politico e personale peggiore l’ha pagato l’ormai ex titolare del Ministero dello Sviluppo Industriale, Federica Guidi. Senza i riflettori puntati sul referendum e sugli idrocarburi, l’indagine sulle autorizzazioni a Total per il giacimento lucano di Tempa Rossa non sarebbe diventato un circo mediatico di questa portata. Con la pubblicazione delle conversazioni telefoniche fra la Guidi e il suo compagno Gianluca Gemelli, sospettato di “traffico di influenze illecite”, si è raggiunto un nuovo record negativo nella correttezza dei rapporti fra giustizia e mass media.
E questi sono solo i costi più evidenti di un grande buco nell’acqua fatto dal referendum.
di Stefano Magni | Lanuovabq.it
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