(reformiert.info) Un bimbo deperito dalla pelle scura, rannicchiato su un sudicio terreno argilloso, fissa l’obiettivo con uno sguardo sofferente: per molto tempo le organizzazioni umanitarie di casa nostra hanno sollecitato le donazioni con immagini come questa.
Come possono essere illustrati i progetti nel Sud del mondo senza ricorrere a un linguaggio visivo discriminatorio? L’organizzazione umanitaria di matrice protestante Mission 21 si sta occupando della questione.
Quale etica nelle campagne di donazione?
Tra le ONG attive a livello internazionale è cresciuta in anni recenti la consapevolezza che non sia etico andare a caccia di donazioni con rappresentazioni che ledono la dignità delle persone. “Cementano lo stereotipo di poveri e bisognosi che sono privi di risorse proprie e dipendono dal nostro aiuto”, dice Claudia Buess, storica e responsabile della formazione presso Mission 21.
Per questo motivo molte organizzazioni umanitarie stanno discutendo in modo approfondito riguardo alla possibilità di illustrare i loro progetti nel Sud del mondo senza ricorrere a un linguaggio visivo discriminatorio, potenzialmente razzista e imperialista.
Connessioni coloniali
Per comprendere la complessità della questione è necessario, secondo Buess, riflettere sulla storia coloniale europea. Presso Mission 21, l’organizzazione che è succeduta alla “Missione di Basilea”, la storica è impegnata da circa cinque anni nell’elaborazione di un passato bicentenario.
Dal 2021, nella serie di webinar tuttora in corso “Mission – Colonialism Revisited”, l’organizzazione – attiva a livello internazionale – fa luce sulle connessioni tra il colonialismo e le chiese. Buess afferma: “È un dato di fatto che la storia della supremazia coloniale, che era una supremazia bianca, fu scritta sotto la forte influenza delle società missionarie”.
Formazione antirazzista
Nei workshop Buess ha mostrato fotografie tratte dagli archivi di Mission 21 che chiariscono i rapporti di dominio ai tempi del colonialismo – e che suscitano una sensazione di disagio. Le immagini mostrano come i missionari bianchi del nord convertono i “pagani” del sud, dando espressione alla prospettiva di una supremazia europea. “Anche se oggi con le organizzazioni partner nel Sud del mondo perseguiamo un rapporto paritario, queste immagini continuano a vivere dentro di noi”, è convinta Claudia Buess. Affinché vi sia consapevolezza al riguardo, Mission 21 ha organizzato tra l’altro corsi interni di formazione antirazzista.
Uno studio del 2023 del Servizio per la lotta al razzismo del Dipartimento federale dell’interno ha in effetti rilevato che in Svizzera il razzismo strutturale è una realtà. Vi si legge: “Il razzismo si manifesta in valori, comportamenti e idee di normalità consolidatisi nella storia”. Spesso è percepito dall’opinione pubblica come “normale”, o non è quasi messo in discussione, e caratterizza la società, le imprese e le istituzioni – anche le chiese e le organizzazioni umanitarie.
Vergogna e sensi di colpa
Riconoscere che nemmeno la chiesa è un luogo esente da razzismo non è affatto facile, afferma la teologa Sarah Vecera, responsabile del settore “razzismo e chiesa” nella Missione evangelica unita in Germania. “Le persone nelle chiese vogliono incontrarsi nell’amore per il prossimo e non essere razziste”. Mancanze di questo genere, commesse consapevolmente o inconsapevolmente, hanno prodotto vergogna e sensi di colpa.
Per questo motivo Vecera chiede che il lavoro antirazzista venga considerato come un compito pastorale. “Perché quando le persone provano vergogna o si sentono colte sul fatto noi abbiamo il dovere di fornire un’assistenza spirituale”, dice la teologa. “Ed è questo il caso anche quando le persone non bianche soffrono a causa del razzismo strutturale o personale”. Con il mero intelletto non è possibile contrastare imprinting ed eventi emotivi.
Quando ci si occupa di lotta al razzismo le immagini hanno un ruolo importante. Non soltanto quelle interiorizzate, ma anche quelle reali diffuse dalle organizzazioni umanitarie. Secondo Claudia Buess c’è un semplice criterio per stabilire quali immagini siano accettabili ed è la domanda: “Mi sentirei a mio agio se venissi mostrato in una situazione del genere?”. (Da: reformiert.info; trad.: G. M. Schmitt; adat.: G. Courtens)
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