E’ al suo esordio narrativo Massimo Cecchini, autore de “Il Bambino” (edito da Neri Pozza, 2022), in cui si confronta con una tematica non facile: quella della disabilità e del dolore che investono una coppia come tante altre, della Roma degli anni ’60. Piero e Anna Bonaventura sono alle prese con il figlio, Angelo, che, a causa di un incidente nasce con una drammatica disabilità e che per tutte le persone che gli ruoteranno intorno, negli anni, sarà per sempre “Il Bambino”. Ne abbiamo parlato con l’autore del libro.
Come nasce l’idea di dedicarsi ad un romanzo su un tema come la disabilità?
«Credo sia opportuno dividere la risposta in due parti. La prima ha a che fare con l’esigenza di scriverla: perché questa è una storia che merita di non essere dimenticata. Col sovrapporsi delle generazioni, tante vicende finiscono inevitabilmente per perdersi nella memoria, così io ho cercato di “salvare” questa narrazione, che affonda le radici in vite veramente vissute. La seconda parte della risposta è ideologica: a mio parere questo è solo in apparenza un romanzo sulla disabilità, ma in realtà è fondamentalmente una storia d’amore. Una storia sugli effetti collaterali che possono innescarsi in una famiglia, e nelle persone che vi ruotano intorno, dalla relazione con un bambino (e poi un ragazzo, e poi un uomo) affetto da una disabilità totalizzante. Penso che alla fine emerga una domanda di fondo: siamo sicuri che il “mostro” sia solo chi lo appare nell’aspetto? O è possibile che anche noi, feriti nel corpo e nell’anima, senza saperlo siamo deturpati da cicatrici invisibili che zavorrano la nostra esistenza?».
La quotidianità descritta nel suo romanzo non è quella vissuta da tutti, cosa ha voluto far emergere dal vissuto della famiglia Bonaventura?
«Ho voluto far emergere il fatto che neppure noi sappiamo quanto siamo in grado di cambiare la nostra vita davanti a situazioni che ci sembrano ineluttabili. La famiglia Bonaventura pareva destinata a vivere una agiata esistenza borghese e finisce invece per fare scelte radicali e apparentemente insensate solo perché ritiene di non avere altra umana (a meno di non voler essere disumani) possibilità di fare altro. E trova intorno a sé persone che, pur non legate da vincoli di sangue, sono attirati nell’orbita potente del Bambino e delle sue esigenze, cambiando anche loro percorsi e aspettative esistenziali».
Cosa rappresenta il Bambino per i personaggi che gli ruotano intorno?
«Il Bambino rappresenta il punto di riferimento della quotidianità, la cartina di tornasole dell’andamento della giornata, se vogliamo anche il totem da cui si vorrebbe fuggire per provare a vivere un’esistenza più normale. Ma Angelo alla fine è un polo di attrazione troppo forte per coloro che vedono in lui l’istintività innocente e il dolore incomprensibile. È l’amore, in fondo, che riesce a creare una grammatica comune che prova a mettere in comunicazione le persone senza bisogno di usare le parole».
Che idea del dolore emerge dal romanzo?
«Ritengo che venga fuori un’idea di dolore come strumento inconsapevole per andare altrove. La famiglia Bonaventura, paradossalmente, vive con una levità e una leggerezza che riesce a stupire coloro con cui vengono a contatto. Ciò che per gli altri è semplice disagio, per loro è solo l’unico modo possibile per vivere. E tutto questo lo fanno non perché sorretti da una fede potente, perché vogliono conquistare un posto in Paradiso. La loro religiosità è apparentemente banale, fiacca, piena di contraddizioni e punteggiata di evasioni nell’illecito che rendono soprattutto Pietro – il padre, il vero punto di riferimento della storia – un qualsiasi esempio di uomo cresciuto nei canoni di un maschilismo da XX secolo. Eppure, in una vicenda che copre una cinquantina d’anni, nessuno della famiglia usa per loro stessi la parola sfortuna. La sfortuna è stata appannaggio solo di Angelo, del Bambino, che chissà perché tutti immaginano sarebbe potuto essere un brillante esponente della società civile. I Bonaventura non hanno il minimo dubbio di essere stati beneficati dalla sorte per avere avuto quel figlio, sia pure pieno di problemi. La loro prospettiva non è la nostra e, in certo modo, finisce per contagiare anche le persone che vi si relazionano. Il finale aperto, in fondo, è anche un modo per provare a coniugare un amore diverso con la speranza di una vita più normale. Senza che nessuno possa avere la certezza che un connubio del genere avrà mai la forza di realizzarsi».
https://www.provitaefamiglia.it/blog/raccontare-il-dolore-e-la-disabilita-di-un-bambino-con-speranza
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