Quirico: «Quando ero in prigionia pensavo: “Devo tornare per chiedere perdono”»

«Ho capito che quell’assenza era la presenza più forte di Dio » – Vale la pena ripubblicare la straordinaria e toccante testimonianza di fede di Domenico Quirico apparsa ieri su Tempi.it, dove, il giornalista della stampa rapito i Siria dove è rimasto prigioniero per cinque mesi, con semplicità racconta le sue sensazioni, e di come abbia imparato a guardare alla vita in modo completamente diverso.

Ispirandosi al personaggio biblico Giobbe, Quirico racconta come attraverso al fede e la preghiera, abbia trovato al forza di sopportare la durezza della sua prigionia, confidando che Dio lo avrebbe restituito alla sua famiglia.

Racconta il giornalista: «Il mio modello di fede è Giobbe, quello del mio collega belga Abramo. Lui cercava di fare un patto per essere liberato e si arrabbiava perché non succedeva mai, per me con Dio può funzionare solo il darsi, l’affidarsi, stando in attesa».

Parla con grande passione e trasporto dei suoi 152 giorni di prigionia in Siria, nelle mani dei ribelli, «che in teoria erano i miei amici, quelli che mi hanno tradito e hanno tradito la rivoluzione».

«Ho dovuto avere pazienza – continua – come Giobbe, che lascia che Dio gli tolga tutto ma alla fine riceve dieci volte di più. Per me il rapporto con Dio, soprattutto nella vita di tutti i giorni, è questo darsi e aspettare».
Ma non è stato facile attendere, soprattutto «dopo due mesi di giornate vuote, passate a far niente, in prigionia»: «A un certo punto ho pensato di essere morto e di essere finito all’Inferno, chiuso per sempre in una stanza vuota, caratterizzata dall’assenza di tutto».

«Ho capito che quell’assenza era la presenza più forte di Dio, che mi diceva “accetta con umiltà, non venire subito a farmi delle domande, fidati”. Dio non mi ha mai abbandonato ma penso di aver espiato le mie colpe». Quali? «Uno dei peccati più facili per il giornalista: la vanità. I veri sequestrati erano i miei famigliari, i miei amici, i miei colleghi, che hanno sofferto con me e per me senza poter sapere dov’ero, se ero vivo o morto. E per che cosa io li ho esposti a questo rischio? Per un reportage in più, per 150 righe. La bilancia non funzionava, ho peccato di vanità e pensavo in prigionia: “Io devo tornare, devo tornare per chiedere perdono”».

Ora che è tornato a casa, viene chiesto al giornalista della Stampa, «come si fa a recuperare quei 152 giorni che ti sono stati tolti?». «Io recupero la mia vita facendo gesti semplici – è la risposta – perché ho scoperto il valore immenso di cose banali: bere l’acqua fresca quando ho sete, cosa che non potevo fare in Siria, decidere se mangiare una cosa o l’altra, soprattutto i dolci. Io sono molto goloso e il gusto di un biscotto è fantastico, non sentire di continuo il rumore dell’artiglieria è straordinario».

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