Roma (NEV), 13 dicembre 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è a firma di Tommaso Tamburello e Alberto Mallardo.
A Youssef piacciono i cani. L’abbiamo visto battersi una mano sulla gamba, e loro di seguito trotterellando alle sue spalle. Ahmad, invece, ama trascorrere le giornate a pescare, tra le onde che si infrangono sui moli e sugli scogli di Lampedusa, senza curarsi del freddo.
Entrambi arrivano dal Marocco e hanno passato rispettivamente sei e due mesi in Libia prima di imbarcarsi verso l’Italia. Youssef parte per cercare lavoro, lasciando una moglie e una figlia appena nata a casa. Mentre ci parliamo si scusa se i ricordi non sono nitidi, se le parole a volte scivolano via confuse. “Appena arrivato in Libia – ci spiega – mi sono reso conto che il mercato del lavoro libico non offriva più gli stipendi di un tempo”. Esita un istante solo, poi ci confessa che in Libia non riusciva a racimolare, col suo lavoro di imbianchino, più di quanto guadagnasse in Marocco, appena 1500 dinari al mese (150 euro). Avendo problemi con il visto e non disponendo del denaro necessario per corrompere le guardie di confine, Youssef rimane bloccato in Libia. Riesce a trovare lavoro a Sabrata, città in cui vive per cinque mesi e in cui resta fino allo scorso settembre, quando allo scoppiare di un violento conflitto fra milizie decide di continuare il suo pellegrinaggio, aggrappandosi alla speranza di trovare una situazione più stabile a Tripoli.
Il tratto di strada che va da Sabrata a Tripoli è disseminato di checkpoint delle milizie. È in prossimità di uno di questi che Youssef viene rapito, tradito da un tassista che lavorando in collaborazione con i miliziani segnala la sua presenza. Youssef viene rinchiuso in una casa tra Tripoli e Zawiya, segregato con altre 9 persone fra cui siriani, marocchini, sudanesi e anche libici.
Gli uomini che lo rapiscono appartengono alla tribù dei Warshafana, una sanguinosa milizia che detiene il controllo dei territori intorno a Zawiya. “Attentati esplosivi, sabotaggio di strutture pubbliche, furti, rapimenti, omicidi”, Youssef sciorina una lista di crimini commessi dalla tribù Warshafana. Dopo un periodo di riorganizzazione seguito alla caduta di Gheddafi, la spietata milizia era tornata a controllare le zone a ovest di Tripoli, dove specialmente intorno a Zawiya “pratica i peggiori atti di vendetta, fra cui rapimenti, torture, richieste di riscatti, senza pietà alcuna per anziani, donne, bambini e studenti”.
Youssef riesce a cavarsela con un riscatto piuttosto basso – circa 600 euro – che viene pagato da un amico libico, ottenendo il rilascio qualche giorno dopo. Diversamente altri compagni di cella vengono selvaggiamente torturati e uccisi a sangue freddo nel giro di un paio di giorni, perché non danno garanzie di poter pagare alcun riscatto.
Ahmed, il compagno di Youssef, ha passato solo due mesi in Libia, ed ha avuto la fortuna di non essere stato rapito, complice forse anche la sua carnagione molto chiara. Nonostante il breve periodo trascorso in Libia si è comunque fatto un’idea delle dinamiche che dominano la vita quotidiana: “In Libia la corruzione è estesa a tutti i settori della società: non solo i poliziotti e i funzionari che lavorano nei centri di detenzione del governo sono corrotti e collusi con i miliziani, ma perfino gli operatori umanitari picchiano e derubano i prigionieri di tutti i loro averi. Le mafie e le varie milizie controllano tutte le realtà del paese in maniera capillare, grazie all’enorme quantità di armi di cui dispongono: magazzini di armi e munizioni sono dappertutto. Molti miliziani sono spesso minori e fanno assiduamente uso di droghe, il che li rende ancora più violenti e imprevedibili. Fare una vita normale è impossibile in Libia, ogni volta che esci per un caffè o vuoi farti un giro la sera sai che puoi incorrere in un problema, o essere rapito”.
Youssef e Ahmad immaginano che nella città di Sabrata vi siano ancora all’incirca 60mila persone rinchiuse nei centri di detenzione, le cui condizioni peggiorano inevitabilmente di giorno in giorno. Inoltre, sostengono con certezza che il blocco delle partenze verso l’Italia sia solo temporaneo: una volta che i nuovi gruppi si riorganizzeranno, le partenze con i barconi riprenderanno con ancora maggiore intensità.
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