“Nati per vivere”, il libro fotografico che racconta il reparto di ematologia pediatrica al San Gerardo di Monza. Dove l’alleanza tra medici, malati e genitori è un’arma potente quanto le più moderne terapie. Intervista al primario Momcilo Jankovic.
Mentre altrove si pensa di risolvere l’ingiustizia del “dolore innocente” con l’eutanasia infantile, in Italia c’è ancora chi si spende per affiancare i piccoli malati in una lotta per la vita che è impossibile vincere da soli. È la battaglia che il dottor Momcilo Jankovic, primario del day hospital di ematologia pediatrica dell’ospedale San Gerardo di Monza, ingaggia ogni giorno «con tutto il reparto, i bambini e le famiglie», come spiega lui stesso a tempi.it. A raccontarlo è ora anche un libro fotografico, Nati per vivere (edizioni Contrasto, 61 pagine, 16 euro), che nasce dall’esperienza e dalla tenacia di Jankovic, dallo sguardo del fotografo Attilio Rossetti (sue le foto che corredano questo articolo) e dall’impegno dell’Associazione Comitato Maria Letizia Verga, cui sarà devoluto il ricavato, e della Fondazione Magica Cleme, entrambe attive nel sostegno a chi cerca la guarigione.
Dottor Jankovic, il dolore innocente è quello che scandalizza di più, tanto che qualcuno pensa di poterlo cancellare. Lei ci ha a che fare ogni giorno, eppure il suo volto, nelle foto del libro, è sempre lieto. Come mai?
È bello vedere sorridere un bambino malato. L’ho scritto e lo ripeto. Ma perché questo accada è necessario il volto sereno dei genitori e dei medici. Per questo serve un’alleanza terapeutica in cui supportarsi a vicenda affrontando quella che all’inizio può apparire come una vetta insormontabile.
L’alleanza di cui parla non è prettamente scientifica. Di che si tratta?
Il cuore è emotività e va scaldato, sollecitato e promosso dai compagni di questo viaggio, che a loro volta si alimentano della speranza comunicata al malato. Per questo, grazie anche alla gente e alle associazioni che ci aiutano, mi piace dare e ricevere serenità in molti modi, anche portando i bambini alle partite di calcio o ai concerti. Insieme a questo occorre ovviamente usare un grande rigore scientifico, gli esami clinici, le chemioterapie e le cure più efficaci, che però non funzionerebbero senza il cuore. Ecco perché nel libro definisco l’alleanza terapeutica come il nostro cuore che deve conoscere il mondo della ragione e quello della ragione che deve essere guidata da un cuore vigile.
Cosa intende quando sostiene che la qualità della vita non richiede solo il mantenimento della situazione precedente?
La qualità della vita non è misurabile nello stato fisico di una persona. Noi non siamo mai a posto una volta per tutte: per vivere abbiamo bisogno di continue e nuove acquisizioni sul piano emotivo, cognitivo e motorio. Questa fase della vita io la “sfrutto”. La malattia può essere una possibilità, ad esempio quella di togliere il piccolo o l’adolescente dal tecnicismo per fargli riassaporare la genuinità dei rapporti e delle cose semplici dell’infanzia.
Ecco la possibilità nella sofferenza. È la “resilienza” di cui fa menzione?
La “resilienza” è la capacità di resistere ad avventi avversi per uscirne fortificati. Nelle immagini ci sono pazienti guariti. Da un’indagine che ho svolto fra di loro ho capito che la forza che si ritrovano addosso dopo la malattia non viene tanto dalla sofferenza in sé, ma dalla sofferenza condivisa. Per questo davanti a chi sta male non serve la compassione come commiserazione, ma la vicinanza vera di chi vuole combattere con il malato. Noi aiutiamo i genitori ad affrontare la malattia dei loro figli così.
Le immagini del libro sembrano testimoniare una sofferenza vivibile anche per chi non è ancora guarito. Eppure la mancata guarigione oggi appare come un fallimento intollerabile, al punto da giustificare l’eutanasia. Lei non la vede così?
Sia ben chiaro, quando dico che l’80 per cento dei nostri pazienti è guarito parlo anche del 20 per cento che ho accompagnato a morire. Quando non c’è più nulla da fare si fa di tutto per alleviare la sofferenza, ma il non accanimento non c’entra proprio nulla con il rifiuto della sofferenza fino a eliminarla con la morte procurata. Anche per quel 20 per cento di bambini che non sono guariti non posso dire che la sofferenza sia stata inutile. Non in quanto tale, ripeto, ma come strumento per attirare a sé, per farsi voler bene, per richiamare e sentire vicino chi ci ama. Forse per questo redime anche gli altri, perché può far ritrovare insieme chi prova a starle davanti.
Benedetta Frigerio
Fonte: http://www.tempi.it/
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