Lo scrittore Nicolas de Chamfort una volta appuntò questo aforisma: «La società comprende due classi: quelli che hanno più cibo che appetito, e quelli che hanno più appetito che cibo». Roman Ostriakov, ucraino di 36 anni, di certo appartiene a questa seconda categoria di persone.
Ostriakov ormai da tempo viveva per i caruggi di Genova senza casa e senza lavoro. Nel 2011 fu colto in flagrante mentre rubava due pezzi di formaggio e un wurstel in un supermercato nascondendoli sotto la giacca, dopo che – per non insospettire nessuno – aveva pagato alla cassa dei grissini. L’ammanco per il supermercato era di ben 4,07 euro. Dato che non era la prima volta che Ostriakov commetteva dei furtarelli, venne condannato in primo grado a sei mesi di reclusione e a dover pagare 100 euro di sanzione pecuniaria. Sentenza confermata in appello nel 2013.
Il Procuratore generale della Corte di Appello di Genova ricorse in Cassazione perché tentò un alleggerimento della pena: secondo lui si trattava di tentato furto e non di furto, seppur lieve, perché le vivande erano state prontamente restituite dal reo. La Cassazione non ha accolto i rilievi del Procuratore, anzi per gli ermellini la sottrazione di beni commestibili compiuta in quel supermarket non può venire qualificata come furto perché il signor Ostriakov agì in stato di necessità.
Infatti, nelle motivazioni di diritto della sentenza che annulla la precedente decisione dei giudici d’appello così si legge: «La condizione dell’imputato e le circostanze in cui è avvenuto l’impossessamento della merce dimostrano che egli si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo quindi in stato di necessità». Si è quindi verificata „l’esistenza di una causa di giustificazione». Il rimando dei giudici è all’art. 54 del Codice Penale che così recita: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo».
Purtroppo questo articolo difficilmente si può applicare al caso in oggetto. Occorreva, infatti, provare preliminarmente che, se il senzatetto non si fosse sfamato all’istante, sarebbe morto oppure la condizione di malnutrizione avrebbe intaccato gravemente la sua salute (attualità del pericolo di danno grave alla persona). Inoltre, mancano altre due condizioni perché si possa configurare lo stato di necessità. La prima fa riferimento al fatto che la sottrazione del cibo al supermarket fosse l’unico modo perché Ostriakov potesse sfamarsi. Non era di certo l’unica soluzione a lui disponibile, potendo, ad esempio, rivolgersi ad una mensa dei poveri, chiedere in prestito una piccola cifra di denaro, entrare in quello stesso supermercato e far richiesta di un po’ di cibo, bussare alla porta di un amico, di un conoscente o di un sacerdote.
Solo l’impraticabilità di queste soluzioni avrebbe potuto lecitamente spingere il clochard a nascondere sotto la giacca i generi alimentari. Infine, lo stato di indigenza e di malnutrizione perché sia giuridicamente valido al fine di applicare la scriminante dell’art. 54 cp non deve essere stato provocato volontariamente dallo stesso senzatetto. Ora, in sentenza non c’è traccia di questa prova che dunque è solo presupposta. Può essere benissimo che Ostriakov sia finito in mezzo ad una strada senza sua colpa e senza sua colpa non sia riuscito più a trovare un lavoro, ma può essere invece che la sua condizione sia colpevole se non addirittura volontaria (persino una scelta di vita, come capita spesso).
Dunque l’unica soluzione per il buon Ostriakov è la galera? No. Dato che non si può applicare la causa di giustificazione dello stato di necessità occorre una pena, ma la pena deve essere giusta. Ora il carcere per illeciti bagatellari come questi, laddove a commetterli non è persona con mens criminale, appare proprio – a parere dello scrivente – una sanzione squilibrata sia ai fini retributivi, sia a quelli rieducativi. Ed è per questo motivo che la Cassazione ha usato in modo disinvolto, ma non giustificabile, del diritto per un lodevole fine equitativo.
Il magistrato di Sorveglianza in casi analoghi, dove si potrebbe sospettare la reiterazione del reato e dunque non si è inclini ad applicare la sospensione condizionale della pena, potrebbe commutare la reclusione in pene alternative (es. affidamento in prova ai servizi sociali), soluzione che ci pare più idonea tenendo conto sia la natura dell’illecito che comunque è interessato da parvità di materia (furto per 4 euro di valore), sia soprattutto le condizioni soggettive del reo e quelle oggettive in cui si è svolto il fatto (ha rubato ad un supermercato e non ad un altro povero).
Sotto il profilo morale invece che giudizio dare? In stato di necessità reale chi sottrae dei beni non di sua proprietà al fine di sostentarsi non commette furto e quindi non siamo in presenza di un atto intrinsecamente malvagio che mai potrebbe essere compiuto anche nel caso in cui fosse stato commesso per il fine buono di sopravvivere. Una possibile spiegazione potrebbe essere la seguente. A tutti noi deve essere riconosciuto il diritto alla vita. In prima istanza sta a noi tutelare questo diritto: curandoci, lavorando per guadagnare dei soldi per sfamarci etc. Ma può capitare che, senza colpa, non siamo più in grado di far fronte a questi impegni. La tutela del diritto alla vita allora, secondo il principio di sussidiarietà, diventerebbe un onere a carico della collettività. Infatti, almeno nei Paesi occidentali gli ordinamenti giuridici approntano degli strumenti assistenziali per gli indigenti.
Laddove però la società rimanesse inerte (anche a motivo di un pericolo imminente alla persona), allora l’indigente potrebbe lui stesso attivarsi per far fronte alle proprie necessità vitali sottraendo risorse giuridicamente non sue e sostituendosi così a quei terzi che avrebbero dovuto aiutarlo. Se, infatti, egli, a motivo della legge naturale, è titolare del diritto alla vita è altresì titolare, cioè proprietario, dei mezzi indispensabili per tutelare questo diritto. E dunque quel pane e quell’acqua di cui si è impossessato sono suoi, in coproprietà con il legittimo proprietario. Ergo non c’è furto alcuno.
É la teoria tomista della destinazione universale dei beni: «le cose che uno ha d’avanzo per diritto naturale devon servire al sostentamento dei poveri. […] Tuttavia, se la necessità è così urgente ed evidente da esigere il soccorso immediato con le cose che si hanno a portata di mano, come quando una persona versa in tale pericolo, da non poter essere soccorsa diversamente; allora uno può soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta che occulta, della roba altrui. E l’atto per questo non ha natura di furto o di rapina» (Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 66, a. 7 c.).
Potremmo dire, glossando l’Aquinate, che le cose d’avanzo se non date dal legittimo proprietario all’indigente, come sarebbe invece dovere darle, sono prese direttamente da quest’ultimo perché comunque a lui spettanti. Ma se l’indigente versa in questo stato per sua colpa? Bisogna lasciarlo morire di fame? Per nulla. La collettività lo sfamerà perché primo passo perché questa persona riacquisti quella dignità da lui volutamente persa al fine poi di rieducarlo, magari anche sottoponendolo a giusta pena, a diventare un cittadino che sa badare a se stesso.
di Tommaso Scandroglio | Lanuovebq.it
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